Ma il Carroccio non manda giù l’amaro boccone

Adalberto Signore

nostro inviato a Verona

Al di là delle parole e dei tanti attestati di solidarietà (che, si sa, in politica hanno sempre un valore relativo), le dimissioni di Roberto Calderoli da ministro delle Riforme sembrano avere avuto come principale conseguenza una sorta di ricompattamento del fronte leghista. E non certo di quello che nella semplificazione giornalistica viene definito «governativo» (del quale, fino a ieri, Calderoli era l’esponente più autorevole). Un processo lento, iniziato in verità nelle prime ore della mattina, quando, insieme a Roberto Maroni, il ministro «dimissionario» si è presentato a Gemonio da Umberto Bossi per decidere la strategia, e culminato in serata, mentre da Verona rimbalzavano sulle agenzie le dichiarazioni di Silvio Berlusconi sugli scontri di Bengasi (provocati da «un atto di leggerezza di un nostro ministro»). Già, perché se per tutta la giornata i dirigenti del Carroccio erano riusciti a tenere sottotraccia una certa insofferenza per come è stata gestita la vicenda, le parole del premier - a dimissioni ormai avvenute - hanno fatto letteralmente sbottare il Senatùr: «Ma cosa vuole di più questo qui!».
Che nella Lega si stesse agitando qualche spettro, lo si era però capito già dalle dichiarazioni di Calderoli. Che, disteso e sereno, racconta di aver ascoltato «solo Bossi» e la sua «coscienza». E rilancia: «Mi sono dimesso per senso di responsabilità, perché ci tengo alla sicurezza dei nostri connazionali, ma è chiaro che le cose sono state strumentalizzate. Adesso porto avanti la mia battaglia e la linea condivisa dal movimento». Anche gli altri colonnelli, da Maroni a Roberto Castelli, si schierano in difesa di Calderoli, perché dopo anni è la prima volta che la Lega inizia a sentirsi un po’ più sola, quasi isolata. Bossi non ha gradito gli attacchi degli alleati, di Gianfranco Fini ma pure di Giuseppe Pisanu, e soprattutto non gli è piaciuta l'uscita veronese del premier (per la verità più che prevedibile).
Così - salvo il silenzio di Giancarlo Giorgetti, in verità sempre molto schivo - il Carroccio pare davvero ricompattarsi. E - come spiega un importante dirigente di via Bellerio - spostare la barra verso l'ala più «movimentista». Perché se nella Lega hanno una certezza è che la base del movimento sia tutta con l’ex ministro delle Riforme. Perché, spiega il sottosegretario alle Attività produttive Roberto Cota, «la difesa delle nostre identità fa parte del dna del movimento». E, aggiunge il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lo dimostrano «gli innumerevoli attestati di solidarietà» arrivati in questi giorni.
Insomma, il Carroccio che si sente tradito non si limiterà a pretendere che nel programma della Casa delle libertà ci sia un richiamo alla difesa dei valori cristiani e dell’Occidente. Farà di più. Perché la battaglia all'Islam sarà uno dei temi centrali della campagna elettorale leghista. Con la Lega cosiddetta «di lotta» che torna in prima fila. Ieri, sarà un caso, a via Bellerio si è riunita sotto la presidenza di Francesco Speroni l'Assemblea padana (retaggio di quel Parlamento del Nord che tanto fece discutere).

E domani tocca al Consiglio federale che si occuperà anche della querelle Calderoli. Mettendo all’ordine del giorno il tema delle alleanza. E - giura più d'uno a via Bellerio - ci sarà chi chiederà di mettere ai voti l’uscita dalla Casa delle libertà.

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