Il carrozzone mondiale della sanità

L’Onu è un carrozzone che alla comunità internazionale costa annualmente 24 miliardi e mezzo di dollari. E che ha a busta paga 56 mila dipendenti remunerati per 3 miliardi e 600 milioni di dollari all’anno. Anche se con i benefici vari - parte in danaro, parte in servizi come le scuole per i figli, il contributo per le spese di affitto, per quelle di rappresentanza, quelle per il biennale ricongiungimento familiare eccetera eccetera - si supera abbondantemente il doppio della cifra. Si dirà che la pace, che la cultura, che la lotta contro la fame, che l’assistenza ai rifugiati, che il controllo planetario della sanità, che la tutela dei minori e altre numerose attività poste sotto l’ombrello delle Nazioni Unite non hanno prezzo. Ciò è vero ed è quanto tutti pensiamo. Seguitando a farlo anche se di pace onusiana se ne vede poca, di fame nel mondo se ne continua a vedere molta, idem di pedofilia e di bambini schiavi (sul progresso culturale favorito dall’Unesco, meglio sorvolare). Quello però che non può più essere tollerato è il sistema escogitato dalle strutture dell’Onu per seguitare a ricevere barche di quattrini quando la metà della metà basterebbero al loro sostentamento. E il sistema per continuare a vivere nella grascia ha un nome: allarmismo. Ora, che l’Unwto, Organizzazione mondiale del turismo, lanci l’allarme per un calo d’interesse vacanziero nei confronti della spiaggia di Phuket, poco ci tocca. Ma se l’Oms lancia l’allarme pandemia prefigurando l’ecatombe e di maiali e di esseri umani solo per attestare la sua centralità nella difesa sanitaria del pianeta e, di conseguenza, la necessità di disporre di uomini, mezzi e danaro - soprattutto danaro - per far fronte all’impegno, questo ci tocca, ci riguarda da vicino. Perché ciò significa creare panico, significa sborsare, da privati e da cittadini contribuenti, somme ingenti. Perché ciò significa, come spiega Gabriele Villa, mandare a gambe all’aria una volta il settore avicolo (aviaria), un’altra volta gli allevamenti di bovini (mucca pazza) con conseguente perdita di posti di lavoro e l’annullamento di filiere produttive e di colture che sono costate anni di sacrifici.
L’allarmismo è ormai diventato un’attività professionale primaria. Tutto o quasi l’ambientalismo vive - profumatamente retribuito, basti pensare ad Al Gore e alla sua mirabolante dichiarazione dei redditi - di allarmismo. E di allarmismo stravive, ovviamente, la costola onusiana dell’ambientalismo catastrofista, l’Intergovernmental panel on climate change, Ipcc. Perché la regola è: senza allarme, niente fondi. Cosa che da tempo hanno capito i mammasantissima dell’Oms, una organizzazione il cui gigantismo aveva senso nel 1948, quando venne fondata. Molto meno ne ha oggi, con lo sviluppo delle tecnologie, dei mezzi di comunicazione e di controllo e la presenza in ogni nazione, anche del sesto mondo, di centri di monitoraggio connessi in rete. Ed è proprio per evitare un seppur poco probabile (è pur sempre un organismo dell’Onu, campione assoluto dell’immobilismo e della spesa allegra) ridimensionamento che a Ginevra non aspettano altro che il pretesto per lanciare allarmi preannunciando immancabili (e inevitabili: ma allora a cosa serve, l’Oms?) catastrofi sanitarie con una scia di milioni di morti.

Basterebbe, per farci sbollire un po’ la rabbia, il licenziamento in tronco - per incompetenza e procurato allarme - della cinese Margaret Chan Fung Fu-chun, direttrice generale dell’Organizzazione. Ma una delle poche certezze sull’Onu è che non ammetterà mai una sua colpa. Sennò che carrozzone sarebbe?

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