
A Palazzo Chigi la parola d'ordine è "cautela". Nonostante l'accordo siglato domenica scorsa in Scozia tra Ursula von der Leyen e Donald Trump, infatti, sui dazi il quadro resta ancora piuttosto fumoso, con le trattative che rimangono aperte su dettagli decisivi come la lista dei prodotti esentati settore per settore. Nel frattempo, Washington e Bruxelles - parlando ognuno al rispettivo elettorato - danno pubblicamente versioni diverse dell'intesa, viatico di una trattativa che sembra destinata a essere in salita.
Insomma, uno scenario per nulla definito e sul quale le tensioni di queste ore potrebbero pesare. Se a oggi siamo ai comunicati stampa, infatti, entro giovedì, al massimo venerdì, Europa e Stati Uniti dovranno sottoscrivere un documento congiunto che sia giuridicamente rilevante. E che consenta a Trump di firmare l'ordine esecutivo per sospendere i dazi al 30% che altrimenti entrerebbero in vigore il primo agosto.
Adesso, dunque, si tratta su un protocollo dettagliato che, a differenza delle note o delle dichiarazioni di queste ore a uso e consumo dei media, chiarisca davvero i termini dell'accordo. Settore per settore e - soprattutto - esplicitando la lista dei prodotti esenti da dazi o a cui applicare tariffe inferiori al 15% concordato in Scozia. Non un dettaglio. Soprattutto per l'Italia che punta a salvaguardare aziende farmaceutiche, produttori di vino e aceti e industrie dell'alimentare che si occupano di formaggi, salumi e più in generale dei circa 850 prodotti certificati Dop e Igp (tra cui anche l'ortofutta).
Di qui la prudenza di Giorgia Meloni. Che, appena rientrata dall'Etiopia, si è completamente dedicata al dossier, tanto da rinviare più avanti il vertice di maggioranza sulle regionali. La premier, infatti, è ben consapevole che i segnali che arrivano da Bruxelles sono altalenanti e che non è chiaro quale sarà il punto di caduta della trattativa ancora in corso. Su cui peseranno anche le posizioni critiche del presidente francese Emmanuel Macron, a cui hanno fatto seguito i forti dubbi del cancelliere tedesco Friedrich Merz - pressato dalle associazioni industriali tedesche - che è sempre stato insieme a Meloni uno dei più convinti sostenitori della trattativa con Washington. D'altra parte, i principali Paesi dell'Ue che esportano negli Stati Uniti sono proprio Germania (161 miliardi di euro), Irlanda (72 miliardi), Italia (65 miliardi) e Francia (52 miliardi).
E che lo scenario sia imprevedibile lo lascia capire il ministro per gli Affari europei Tommaso Foti che non esita a parlare di "quadro poco chiaro". Lo fa riferendosi all'ipotesi di drenare 25 miliardi da Pnrr e fondi di coesione per aiutare le imprese, ma è evidente che il suo è un ragionamento più ampio. Perché, spiega, bisogna intanto "verificare gli impatti delle esenzioni concesse o meno". Prima di allora, aggiunge infatti Foti, "non è possibile avanzare alcuna valutazione" sull'impatto che i dazi avranno sulle nostre esportazioni.
Intanto, mentre l'opposizione ribadisce la richiesta che la premier riferisca in Parlamento, nella maggioranza è la Lega a cavalcare l'onda lunga contro Bruxelles. Il dito su von der Leyen e sull'accordo sui dazi lo puntano anche la segretaria del Pd Elly Schlein e il leader del M5s Giuseppe Conte, ma la replica che arriva dal capogruppo leghista al Senato Massimiliano Romeo non è confortante per la compattezza della maggioranza. "Presentate - dice rivolto alle opposizioni - una bella mozione di sfiducia a von der Leyen per mandarla a casa, visto che si è arresa agli Usa". E, rilancia, "noi come Lega la voteremo da qualsiasi parte provenga".
Un affondo che sembra rivolto soprattutto agli alleati di governo.
Non a caso, mentre Antonio Tajani spiega che "la partita è ancora aperta" e che "il governo farà tutto ciò che serve alle imprese" più colpite, Matteo Salvini già affonda il colpo su Bruxelles. "La Lega non ha mai votato von der Leyen" ed "è evidente a tutti che ci sia qualcosa e qualcuno da cambiare a Bruxelles".