Caso Calvi, il processo finisce in farsa: dopo 28 anni tutti assolti

Roma Ventotto anni dopo. Non è l’ennesimo sequel della saga di zombie londinesi inaugurata dal regista inglese Danny Boyle con «28 giorni dopo» e proseguita con «28 settimane dopo», ma qualche elemento in comune con quelle pellicole, l’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte del banchiere Roberto Calvi ce l’ha: la capitale britannica a fare da sfondo, il Tamigi. Solo che più che un sequel è una farsa: nel caso di Calvi, l’unico zombie è la verità sulla sua scomparsa.
La sua morte, insomma, non ha colpevoli: assolti, come era accaduto in primo grado tre anni fa, l’imprenditore Flavio Carboni, il «cassiere della mafia», Pippo Calò e l’ex esponente della Banda della Magliana Ernesto Diotallevi.
Il presidente del Banco Ambrosiano venne trovato impiccato alle strutture in ferro del Blackfriars bridge la mattina del 18 giugno 1982. Era arrivato a Londra 3 giorni prima. Sembrò un suicidio, ma solo per poco. Le autorità britanniche lasciarono il verdetto aperto. D’altra parte, molte cose non tornavano: Calvi aveva con sé diecimila dollari in contanti e un passaporto falso, alcuni mattoni erano infilati nell’abito per «appesantirlo», il livello del Tamigi quella notte era talmente alto che all’ora della morte del banchiere l’acqua gli sarebbe arrivata al petto, il luogo in cui era legata la corda era complicato da raggiungere. Le perizie si moltiplicarono. Una sentenza civile, 22 anni fa, stabilì che Calvi era stato ucciso. La modalità della morte stabilita per via giudiziaria era solo il primo passo. Il successivo, anni dopo, fu il via all’indagine della procura di Roma. Calò e Carboni vennero arrestati nel ’97. Ipotesi di reato, omicidio volontario premeditato. Calvi sarebbe stato ucciso perché avrebbe malgestito i soldi della mafia, e per impedirgli di parlare. Nel 2005 si arriva al processo. Alla sbarra finiscono l’ex contrabbandiere Silvano Vittor, che aiutò Calvi nella fuga dall’Italia, e che gli inquirenti ipotizzavano essere l’esecutore materiale dell’omicidio, l’ex fidanzata di Carboni Manuela Keinszig e poi Carboni, Calò e Diotallevi. I pubblici ministeri chiedono l’assoluzione per la donna e l’ergastolo per gli altri. Ma gli indizi non convincono la seconda Corte d’assisse di Roma, che manda tutti assolti. La procura di Roma ricorre in appello contro la sentenza per Carboni, Calò e Diotallevi. Ma la sostanza non cambia. E ieri la prima Corte d’assiste d’appello conferma la sentenza di primo grado. Tutti assolti. «Questa pronuncia uccide due volte Calvi», sospira il pg Luca Tescaroli, già pm nel processo di primo grado: «Aspettiamo le motivazioni, valuteremo se ricorrere in Cassazione».

Prevedibilmente soddisfatte le difese degli imputati. E i legali di Carboni «molto contenti» per la fine della «perquisizione giudiziaria» nei confronti del loro assistito, commentano: «Fa un certo effetto essere assolti da un suicidio».

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