Caso Fortugno, cure negate per il boss che sta morendo

I figli del capoclan Cordì, accusato per l’omicidio dell’esponente Dl, scrivono a Napolitano: «Il giudice di sorveglianza gli ha impedito le terapie, ora è tardi»

nostro inviato a Locri

L’omicidio Fortugno fa un’altra vittima. Causa tipici disservizi di malasanità e malagiustizia ha ormai i giorni contati il boss-detenuto della ’ndrangheta Antonio Cordì, 64 anni, capo dell’omonimo clan più volte citato nelle indagini sull’uccisione del vicepresidente regionale calabrese. Stando alle accuse contenute in una corrispondenza tra i familiari del Padrino e il presidente Giorgio Napolitano (che l’ha immediatamente girata al Csm «per le valutazioni del caso») al boss sarebbero state «negate» le cure necessarie a bloccare l’invasività di un cancro diventato oggi incurabile.
Il capofamiglia dell’area Locri-Siderno da tempo soffre di un tumore ai polmoni che i tribunali di sorveglianza hanno ripetutamente giudicato «compatibile» col regime carcerario. Il 30 marzo 2006, però, Cordì entra in un tunnel burocratico senza via d’uscita. I medici che lo hanno in cura scrivono al ministero della Giustizia affinché provveda subito al trasferimento del detenuto in un centro specializzato «idoneo alle cure del caso tenuto conto della sottoposizione del detenuto speciale al regime di 41 bis». Dieci giorni dopo nuovi esami riscontrano una «voluminosa neoplasia del lobo superiore del polmone destro» da asportare «con un’operazione di lobectomia» da effettuare fuori dal circuito carcerario. Tempo una settimana e il Dap individua la struttura «idonea al trattamento e alle cure necessarie» nel carcere napoletano di Secondigliano. L’indomani stesso, nel respingere la domanda di sospensione pena avanzata dall’avvocato Domenico Cartolano, il tribunale di Sorveglianza nega le cure in un ospedale pubblico: «Il quadro clinico, pur severo (...) non pare comportare una situazione di assoluta incompatibilità col regime detentivo, specie se attuato in uno istituto specializzato quale quello individuato dal Dap».
Passano i giorni e Cordì il 20 aprile arriva a Napoli. Per 15 giorni viene ricoverato in un reparto dove nessuno gli somministra le cure del caso. Solo il 3 maggio avviene il trasferimento nel Cdt (centro diagnostico terapeutico) che purtroppo tanto attrezzato per la sua malattia non sembra essere visto che solo il 22 maggio Cordì riesce a sottoporsi a una consulenza chirurgico-toracica. Il quadro clinico intanto si fa sempre più grave. Urgono altri esami che, però, la «struttura specializzata» indicata dal Dap non può fare. Il medico che lo ha in cura alza le mani: «È di tutta evidenza che la malattia è legata alla tempestività dell’intervento chirurgico, unica terapia a questo punto proponibile». Il 3 luglio i familiari del boss decidono di scrivere a Giorgio Napolitano: «Signor presidente, sarà sorpreso nel vedere che chi vi scrive, il cui cognome è purtroppo noto alle cronache, si rivolge alla sua attenzione (...) ma nostro padre sta morendo in carcere e tutte le autorità che lo hanno in carico stanno facendo di tutto per farlo morire in cella, senza dargli la possibilità di essere curato e salvato. È giusto che in una triste vicenda “politica” nostro padre sia stato tirato in mezzo dai media e sulla base di ciò condannato a morire in galera?».
L’8 luglio la pratica dal Quirinale passa al Csm, mentre il 25 successivo il ministero della Giustizia con un fax si rimangia quanto affermato in precedenza: «Questa Amministrazione (...) non dispone di centri specializzati oncologici» ma solo di un «consulente oncologo». Giocoforza, dunque, lasciando perdere Secondigliano si dà mandato per cercare una struttura ad hoc «nell’ambito extraregionale, preferibilmente nel centro-nord Italia». Nell’attesa il primario di chirurgia toracica dell’ospedale Cardarelli di Napoli definisce talmente «gravi» le condizioni di salute di Cordì da considerarlo ormai «inoperabile» per l’espandersi di «metastasi linfonodali ilo-mediastiniche». A seguire il Dap parla di «prognosi quoad vitam imprevedibile non potendosi escludere esito infausto anche a breve termine». Cordì sembra avere le ore contate, non sopporta più nemmeno i cicli di chemioterapia che gli vengono sospesi «per indotto danno renale». Il 21 dicembre il responso della Tac evidenza metastasi anche a livello cerebrale, il 22 il Dap si pronuncia per la «non compatibilità con il regime detentivo» rappresentando anche «l’imprevedibilità evolutiva della malattia neoplastica». Quando il boss moribondo sembra predestinato a trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in famiglia, il 18 gennaio 2007 l’Ufficio di Sorveglianza di Napoli respinge la nuova istanza di sospensione pena «non essendo pronosticato un esito infausto immediato del Cordì» che, dunque, finisce in ospedale, piantonato giorno e notte dai secondini mentre i medici insistono nel parlare di prognosi «infausta a breve termine».
Così i familiari del boss tornano alla carica col presidente Napolitano: «Nostro padre si poteva salvare se nel marzo 2006 la magistratura gli avesse concesso la possibilità di curarsi». Nella lettera i congiunti se la prendono con Mastella «per non aver interrotto un trattamento che certo non corrisponde ai principi di pietà cristiana cui il ministro continuamente si richiama, in quanto cattolico osservante».

E quando al tribunale di sorveglianza di Napoli «che pretende che ci sia scritto di una prognosi di esito infausto immediato ciò significa che nostro padre merita di uscire dal carcere nel momento in cui muore o è addirittura già morto. Dicono che papà è pericoloso. Ma come può esserlo oggi una persona ormai sull’orlo di una tomba?».
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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