L’indizio rivelatore spesso viene messo nelle prime scene del film giallo. In pochi ci fanno caso perché, ovviamente, non sanno che cosa succederà dopo, ancor meno se ne ricordano alla fine, quando ormai il colpevole è stato svelato. Nel caso dell’Europa della moneta unica l’indizio del tarlo, nascosto nelle pieghe dei trattati, ci fu presentato dalla sceneggiatura dei mercati finanziari con l’evidenza di un elefante ma, nonostante ciò, solo adesso ce ne stiamo rendendo conto pienamente.
L’inchiostro delle firme sul trattato di Maastricht era, infatti, ancora fresco quando sulle monete europee si abbattè il grande attacco speculativo del 1992, che costrinse la lira italiana e la sterlina inglese all’abbandono del Sistema monetario europeo con una pesantissima svalutazione del cambio, nonostante lo sperpero delle riserve valutarie di Bankitalia deciso dall’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi, in accordo con il primo ministro Giuliano Amato, nel vano tentativo di mantenere la parità nei confronti delle monete più forti.
Sarà un caso, ma il protagonista di quell’impresa, il finanziere George Soros, è lo stesso che ancora oggi in molti indicano come regista dell’attacco contro la Grecia e alle altre economie deboli dell’area euro. Quell’avventura avrebbe dovuto insegnarci sin da subito che se si mettono assieme diverse economie, per quanto buone siano le intenzioni, si creano sempre degli anelli deboli e prima o poi sul punto fragile si scatena l’attacco. Purtroppo il trattato di Maastricht non recepì quel primissimo allarme e, tuttora, non prevede meccanismi convincenti per gestire la crisi di uno Stato membro, anzi, afferma esplicitamente che la comunità non si fa carico delle obbligazioni di uno stato membro e che è vietato il finanziamento del debito di uno Stato da parte della Bce (articolo 104). Ecco il tarlo. Se uno Stato va in difficoltà la prima valvola di sfogo è la svalutazione della moneta, ma se è impossibile svalutare perché si usa una valuta comunitaria, ecco che la tensione si trasferisce sul debito, ma se nessuno di esterno garantisce per le obbligazioni e non è possibile «stampare soldi» abbattendo il debito con l’inflazione (dato che la moneta la emette solo la Bce) che si fa? Quale che sia la risposta, che verrà presto data a questa domanda, una cosa appare certa: questa crisi ha messo la parola fine ai progetti di allargamento dell’Unione europea ad altri Paesi. Se, infatti, lasciando al proprio destino la Grecia (che avrà le sue colpe, ma vanno in parallelo con l’omesso controllo europeo) si dovesse decidere che uno Stato membro si lega monetariamente mani e piedi, ma senza poter contare su alcun aiuto in caso di difficoltà, non si capisce chi vorrebbe aderire.
Se al contrario si decidesse che, come deciso per le banche, in Europa non fallisce nessuno Stato, costi quel che costi, allora cadrebbe immediatamente la faciloneria con cui venivano progettati improbabili allargamenti dell’Unione monetaria. Per capire l’antifona basterebbe domandare al cittadino greco, persino adesso che si trova in ginocchio con il cappello in mano, la sua disponibilità, in caso di bisogno, a pagare per il turco. La risposta si può immaginare con facilità. Quindi, la «sala d’aspetto» per entrare nell’Euro, al momento piuttosto affollata, dato che accomoda la maggior parte dei Paesi dell’Est europei con in testa Romania, Polonia, Bulgaria e Repubblica Ceca, senza contare le speranze (dettate da motivi molto diversi) di Islanda e Turchia, rischia di diventare permanente.
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