Operazione Gaza: le sette incognite sull'occupazione

Dai fronti aperti ai dubbi Usa Israele e i rischi nella Striscia

Operazione Gaza: le sette incognite sull'occupazione
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In Israele primi a non credere nell'occupazione di Gaza sono i generali chiamati a realizzarla. Il Capo di stato maggiore Eyal Zamir, l'uomo a cui Benjamin Netanyahu chiede di assumere il controllo della Striscia, teme che la mossa segni la fine degli ostaggi ancora in vita e mini la credibilità dell'esercito israeliano. «Una manovra su larga scala non consente necessariamente di raggiungere gli ostaggi», spiega il generale ricordando invece il rischio di «perderli per sempre». Un'opinione condivisa dal generale Nitzan Alon capo del Direttorato dell'Esercito per gli ostaggi. Secondo Alon l'esperienza dimostra una diretta correlazione tra l'intensità delle operazioni militari nella Striscia e le vessazioni imposte ai prigionieri dai loro aguzzini. Zamir teme anche l'inevitabile violazione delle leggi internazionali. Un timore espresso nel corso di un duro scontro verbale con il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, deciso a vietare l'ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. «Idee come questa - sostiene Zamir - mettono in pericolo Israele». Un punto di vista condiviso dal procuratore generale Gali Baharav-Miara che ricorda l'obbligo d'Israele «a portare aiuti nella Striscia in base al diritto internazionale».

E a dividere i vertici israeliani e l'opinione pubblica s'aggiunge il malessere dei riservisti. Quasi 60mila dei 300 mila richiamati dopo il 7 ottobre affronteranno il sesto o settimo richiamo in 18 mesi. Un richiamo indispensabile per spostare nella Striscia gli effettivi impegnati sui fronti di Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen ed Iran. Ma anche un richiamo assai pesante per uomini in età di lavoro costretti ad affrontare - oltre a stress psicologico e lontananza dalla famiglia - le conseguenze economiche dei mesi di richiamo. Conseguenze assai dure per il 34% per cento dei richiamati che, stando alle statistiche, ha perso il lavoro o ha subito riduzioni di salario. E non va meglio ai liberi professionisti costretti a causa dei richiami a rinunciare al 50% delle proprie entrate.

Ma i piani di Netanyahu minacciano anche di compromettere quei piani di Abramo su cui il premier puntava per normalizzare i rapporti con i paesi arabi. L'Arabia Saudita potrebbe essere la prima a rimangiarsi l'impegno a riconoscere lo Stato d'Israele. Senza contare l'inevitabile incrinatura dei rapporti con Egitto e Giordania due paesi dove i destini di Gaza orientano il sentimento dell'opinione pubblica nei confronti d'Israele. Conseguenze inevitabili anche per la Casa Bianca dove la rioccupazione della Striscia sancirebbe la fine di qualsiasi ipotesi di pacificazione del Medioriente. A partire da quell'Iran con cui Trump voleva negoziare la fine dei piani nucleari.

Ma i piani di Netanyahu sollevano scarso entusiasmo anche all'interno di uno Stato ebraico dove molti s'interrogano sull'utilità di tornare ad un occupazione che in passato garantì l'ascesa di Hamas e si rivelò economicamente e militarmente insostenibile. Non a caso il primo a rinunciarvi fu Ariel Sharon. Un generale e un premier che non era certo un agnellino.

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