Cultura e Spettacoli

IL CASO LITTELL Viaggio al termine di un SS

Fa discutere l’opera prima di un 39enne, americano di nazionalità ma che scrive in un francese bellissimo. Candidato a tutti i più importanti premi letterari d’Oltralpe, favorito al Goncourt (che si assegna il 6 novembre), ha già venduto 200mila copie

Nell’Orestea di Eschilo, le Furie che incalzano Oreste, uccisore di sua madre che aveva ucciso suo padre, reo di aver sacrificato una figlia, si placano allorché, grazie al voto determinante di Atena, i giudici mandano libero il matricida: le ragioni per condannarlo equivalgono infatti quelle per assolverlo. Da persecutrici le Furie diverranno da ora in poi le Eumenidi, benevole custodi della giustizia e della prosperità ateniese.
Vera e propria summa del Senso del Tragico, non è un caso che Jonathan Littell abbia tratto il titolo del suo ambiguo e straordinario romanzo proprio dall’ultimo capitolo della trilogia eschilea: Les Bienveillantes (Gallimard, pagg. 900, euro 25, che sarà pubblicato in Italia da Einaudi) non sono altro infatti che le Benevole, le Erinni placate... E se lì a chiedere vendetta c’era il sangue degli Atridi, la ragion di Stato e la morale, il rogo rituale degli innocenti e la sua liceità in tempo di guerra, la legge e il timore della legge, la colpa che deve essere espiata e la espiazione che la riscatta ma non la annulla, qui c’è il cuore nero dell’Europa 1939-1945, la Seconda guerra mondiale, i massacri e le stragi, il mito della razza e l’antisemitismo, la «soluzione finale» e la consapevolezza che non esiste più pietas. Qui le Erinni non inseguono Oreste, figlio di Agamennone e di Clitemnestra, fratello di Ifigenia e di Elettra: qui sono sulle tracce dell’ormai vecchio dottor Max Aue che cominciò il conflitto da sottotenente delle SS e lo terminò da tenente-colonnello, uno che forse, non è chiaro, non ha ucciso la propria madre, ma di certo ha amato carnalmente la propria sorella, uno che in piena coscienza ha liquidato prigionieri di guerra, ebrei e no, e accettato di pianificare la loro eliminazione in grande scala, un nazionalsocialista che credeva in quello che faceva.
Con duecentomila copie vendute in pochi mesi, la candidatura a tutti i più importanti premi letterari e già l’assegnazione del Grand Prix de l’Académie Française, Les Bienveillantes è il caso letterario più clamoroso di Francia. Lo è perché è l’opera prima di un autore di nemmeno quarant’anni, americano di nazionalità ma che scrive un francese bellissimo. Lo è perché si tratta di un romanzo monstre, 900 pagine in cui la guerra e le sue atrocità sono dispiegate in forma quasi ossessiva, ma c’è anche spazio per dissertazioni musicali, analisi linguistiche, annotazioni filosofiche... Lo è perché, francofono come il suo autore, il protagonista Max Aue si muove nella Parigi degli anni Trenta nemmeno fosse a casa propria, è imbevuto di quella cultura, ed è del resto nella Francia postbellica che si è rifatto una vita sotto falso nome. Lo è perché Littell mischia verità e finzione, inventa caratteri ma dà voce e spessore a personaggi realmente esistiti che il giovane Max incontra e/o frequenta: Speer e Bormann, Eichmann e Himmler, Jünger e Abetz, Brasillach e Rebatet... Lo è, infine, perché è la testimonianza in prima persona di una SS («la più celebre di Parigi dopo Günter Grass», ha ironizzato nei giorni scorsi Le Figaro), che non si giustifica né rivendica: semplicemente racconta il proprio viaggio al termine della notte, al fondo della disumanità.
«Indovino quello che pensate: ecco un uomo veramente cattivo, dite, un essere malvagio, in breve, una carogna che dovrebbe marcire in prigione piuttosto che infliggerci la sua filosofia confusa di fascista pentito a metà... Sulle mie responsabilità morali permettetemi qualche considerazione. I filosofi politici hanno spesso fatto notare che in tempo di guerra il cittadino, il maschio almeno, perde uno dei diritti più elementari, quello di vivere, e questo dalla Rivoluzione francese e l’invenzione della leva di massa. Ma hanno raramente notato che quel cittadino perde contemporaneamente un altro diritto, anch’esso elementare e per lui forse ancora più vitale per l’idea che egli ha di se stesso come essere civilizzato: il diritto di non uccidere... Siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Lo sono, voi non lo siete, va bene così. Ma tuttavia dovreste potervi dire che ciò che io ho fatto l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione».
Intendiamoci, Les Bienveillantes non è un romanzo apologetico e, letterariamente parlando, Max Aue è uno dei personaggi più contorti e scostanti che è dato incontrare. L’amore incestuoso nutrito da ragazzino verso Una, la sorella gemella, ne ha fatto un omosessuale passivo e senza affetti, capace sì di amicizie, ma teso a preservare la propria unicità anche a costo di uccidere chi in fondo lo ha sempre aiutato. L’idolatria per un padre, già ufficiale nella Grande guerra e poi nei Corpi franchi, andato via di casa e non più tornato, è la molla dell’odio verso la madre e il patrigno, ma anche la chiave psicologica atta a spiegare il perché della sua adesione ideologica: il riscatto di una Germania sconfitta e umiliata, la necessità di un Capo, una disciplina, una fede. Laureato, colto, intelligente, Aue non è un semplice esecutore di ordini e Littell è bravissimo a tracciare le motivazioni del suo agire: «Era vitale comprendere in sé la necessità degli ordini del Führer: se ci si piegava per semplice spirito prussiano d’obbedienza, per spirito di Knecht, di servilismo, senza capirli e senza accettarli, vale a dire senza sottomettervisi, allora non si era che un vitello, uno schiavo, non un uomo. L’Ebreo, lui, quando si sottometteva alla Legge, sentiva che quella Legge viveva in lui, e più era terribile, dura, esigente, più l’adorava. Il nazionalsocialismo doveva essere proprio quello: una Legge vivente. Uccidere era una cosa terribile; la reazione degli ufficiali lo mostrava bene, anche se tutti non tiravano le conseguenze della loro azione; colui per il quale uccidere non era una cosa terribile, uccidere un uomo armato come uno disarmato, e un uomo disarmato come una donna e il suo bambino, questi non era che un animale, indegno di appartenere a una comunità umana. Ma era possibile che quella cosa terribile fosse anche una cosa necessaria; e in questo caso bisognava sottomettersi a questa necessità». La necessità, per Aue e per quelli come lui, le SS garanti della purezza, è la supremazia nazionale che si incarna nella supremazia razziale. Non è sufficiente vincere, bisogna estirpare il pericolo alla radice, perché il nemico vinto, ma lasciato in vita, può un domani rivoltarsi ancora contro di te. È una questione numerica, una logica numerica...
Costruito su sei grandi blocchi narrativi, Les Bienveillantes racconta l’ascesa e la caduta degli Dei di Germania dal di dentro. C’è la grande avanzata verso l’Est, gli scontri fra il Partito e la Wermacht su come garantirsi le retrovie, l’invasione dell’Urss, Stalingrado e poi l’ordinato prima, convulso poi, ripiegare e intanto il fronte interno, la vita a Berlino... Nelle sue vesti di ufficiale addetto a stendere rapporti sulla pianificazione dei campi di lavoro e di sterminio, Aue è testimone di scelte che non possono lasciarlo indifferente, ma che non sono altro che la conseguenza dell’assunto che le ha rese possibili.
Visto dall’esterno, il delirio appare in tutta la sua tragica e insensata, militarmente come eticamente, dimensione, ma Littell nel raccontarlo dall’interno ne mette in risalto anche la quotidianità e, per certi versi, la anormale normalità. Sul fronte bellico orientale, il più sanguinoso e il più duro, per le condizioni climatiche, per lo scontro armato fra due potenze dittatoriali padrone assolute dei loro sudditi, non c’è che il mors tua vita mea..
Les Bienveillantes è un libro crudele e disperato perché non indietreggia di fronte a nulla. Sul sadismo indotto, per esempio, Littell scrive pagine esemplari: «Una facile soluzione sarebbe biasimare la nostra propaganda: l’Häftling, il detenuto, è un sottouomo, non è nemmeno umano, perciò è legittimo bastonarlo. Ma non è proprio così: dopotutto anche gli animali non sono umani, ma nessuna delle nostre guardie tratterebbe un animale come tratta un detenuto. La propaganda in effetti gioca un ruolo, ma in modo più complesso. Sono arrivato alla conclusione che la guardia SS non diviene violenta o sadica perché pensa che il detenuto non sia un essere umano: al contrario, la sua rabbia cresce e diventa sadismo quando si rende conto che il detenuto, lungi dall’essere un sottouomo come gli è stato insegnato, è giustamente, dopotutto, un uomo proprio come lui, ed è questa resistenza, vedete, che trova insopportabile, questa persistenza muta dell’altro, e dunque la guardia lo batte per cercare di far sparire la loro comune umanità. Naturalmente, la cosa non funziona: più la guardia colpisce, più è obbligato a constatare che il detenuto rifiuta di riconoscersi come non-umano. Alla fine, non gli resta altra soluzione che ucciderlo, il che è la constatazione di uno scacco definitivo».
Intellettuale, Max Aue cerca nelle parole qualcosa che spieghi e/o giustifichi la tragicità delle scelte, l’accettazione del loro grado zero. «Le parole mi preoccupavano. Mi ero già chiesto in che misura le differenze fra Tedeschi e Russi, in termini di reazioni alle uccisioni di massa, e che facevano che noi avessimo dovuto finalmente cambiare di metodo per attenuare in qualche modo la cosa, mentre invece i Russi sembravano, anche dopo un quarto di secolo, esservi rimasti imperturbabili, potevano essere dovute a differenze di vocabolario. La parola Tod, dopotutto, ha la rigidità di un cadavere già freddo, pulito, quasi astratto, la finalità in ogni caso del dopo-morte, mentre Smiert, il termine russo, è pesante e grasso come la cosa in sé. E il francese, nel caso in questione? Questa lingua, restava per me tributaria della femminilizzazione della morte attraverso il latino: quale scarto alla fine fra la Morte, e tutte le immagini quasi calde e tenere che essa suscita, e il terribile Thanatos dei Greci! I Tedeschi, loro, almeno avevano preservato il maschile (anche Smiert, sia detto di sfuggita, è femminile). Lì, nella chiarezza dell’estate, pensavo a questa decisione che avevamo preso, questa idea straordinaria di uccidere tutti gli Ebrei, chiunque essi fossero, giovani o vecchi, buoni o cattivi, di distruggere il Giudaismo nella persona dei suoi portatori, decisione che aveva ricevuto il nome, oggi ben conosciuto, di Endlösung: la “soluzione finale”. Ma che bella parola! E tuttavia, non era sempre stato sinonimo di sterminio: dall’inizio si reclamava per gli Ebrei un Endlösung, oppure una Völlige Lösung (soluzione completa), o ancora una Allgemeine Lösung (soluzione generale) e secondo le epoche questo significava esclusione dalla vita pubblica, esclusione dalla vita economica, infine emigrazione. E a poco a poco il significato era scivolato verso l’abisso, ma senza che il significante, lui, cambiasse, ed era un po’ come se questo senso definitivo fosse sempre vissuto nel cuore del termine, e che la cosa fosse stata ghermita da lui, dal suo peso, dalla sua smisurata pesantezza, in quel buco nero dello spirito, sino alla singolarità: e allora si era passato l’orizzonte degli avvenimenti, a partire dal quale non c’è più ritorno. Si crede ancora alle idee, ai concetti, si crede che le parole designano delle idee, ma non è necessariamente vero, forse non ci sono veramente idee, forse non ci sono realmente che parole e il peso loro proprio. E forse anche noi ci eravamo lasciati trascinare da una parola e dalla sua inevitabilità».
Così parla Max Aue e Jonathan Littell gliene dà facoltà per 900 fitte pagine in cui c’è spazio per una glaciale quanto impressionante conta dei morti e per una comparazione filosofica fra nazismo e comunismo, per una rilettura del processo di denazificazione della Germania sconfitta, nel momento in cui i nuovi equilibri postbellici ricreano un fronte occidentale democratico in contrapposizione a un fronte orientale totalitario, per una messa a punto dell’antisemitismo come moneta corrente europea di tutto l’Otto-Novecento. Scrittore versato in campo militare, il racconto che Littell fa della battaglia e poi dell’assedio di Stalingrado è da manuale, ma tutto il romanzo è attraversato da comprimari e primi attori splendidamente ritratti, siano essi dei teorici nazisti dell’odio antiborghese che alla fine troveranno a Mosca il modo per proseguire la loro lotta, degli aristocratici antihitleriani, degli ottusi esecutori di ordini, dei fanatici assassini... Quanto ad Aue, il capitolo in cui, in una Germania ormai in fiamme, cerca rifugio nei possedimenti abbandonati della sorella tanto amata, è un superbo concentrato di regressione all’infanzia, sadomasochismo sessuale, volontà di annientamento...
Les Bienveillantes è non solo il grande romanzo dell’anno, ma uno dei più affascinanti che da almeno un trentennio a questa parte la letteratura ci abbia regalato. Lo è per le ambizioni, la ferocia visionaria, il cinismo, la vergogna, l’orrore e il dolore di cui si nutre.

Se poi quelle del titolo siano veramente Eumenidi placate o ancora Furie in cerca di vendetta, il giudizio sta nel cuore di chi legge.

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