Il caso di «Repubblica», giornale militarizzato

Spero di ricordare bene d’aver letto, alcuni mesi fa, di un dialogo tra il sen. Gianni Agnelli e il sig. Carlo De Benedetti riportato dal «Giornale». Il sig. De Benedetti diceva al sen. Agnelli che la differenza fra loro stava nel fatto che il Senatore era proprietario del giornale «La Stampa», mentre lui era proprietario dei giornalisti. Il seguito fu un gran silenzio. Assenso?



Ma lo sa, caro Bianchini, che non ricordo d’aver letto quella sfrontata (ma non immotivata) dichiarazione di Carlo De Benedetti? Non ch’io metta in dubbio la sua, di memoria, non che quelle parole non assomiglino a chi le ha pronunciate, ma siccome sono come San Tommaso e se non tocco con mano mi astengo, farò come nei film americani, quando, a seguito del classico «Mi oppongo, vostro onore!», il giudice intima alla giuria di non tener conto della dichiarazione del teste. Possiamo però far due chiacchiere sul paradosso Repubblica, i cui redattori proclamano, ogni due per tre, la propria assoluta libertà e l’indipendenza. Mentre sono quelli che più avvertono sul collo il soave giogo della proprietà. Questo giudizio, che posso tranquillamente virgolettare, è di Francesco Cossiga, senatore a vita e presidente emerito della Repubblica: «Ezio Mauro è un bravo ragazzo che notoriamente non conta nulla nel giornale perché in un giornale militarizzato quale è Repubblica nulla si pubblica senza il visto dell’amministratore delegato Marco Benedetto e dell’unico proprietario Carlo De Benedetti, previa consulenza del noto Voltaire italiano romanziere, teologo, giornalista e direttore di giornali», che sarebbe, quest’ultimo, Eugenio Scalfari. Bene, recentemente, la catena di comando del quotidiano «militarizzato» ha subito uno scossone: dopo una ventina d’anni al vertice dello Stato maggiore, Marco Benedetto ha fatto - o gli hanno fatto fare - fagotto. E tutta la struttura s’è messa a scricchiolare al punto che il proprietario unico, De Benedetti, s’è trovato costretto a precisare che fra lui e quel «bravo ragazzo» del direttore Ezio Mauro c’è sempre amore, stima e considerazione. E quando ci si riduce a dire certe cose, non occorre aver pratica di giornali per capire che gatta ci cova. Insomma, l’impressione è che la proclamata libertà e indipendenza dei colleghi della Repubblica stia per subire un restyling o, come si dice, una «rivisitazione». Perché uno può girarsela come vuole, può darla a bere come vuole, ma Repubblica non fa eccezione: la linea politica la stabilisce il direttore. Il quale a sua volta la riceve bella impacchettata dall’editore. Cioè da colui che lo prescelse a dirigere il suo, suo di De Benedetti, giornale. Con un contratto basato sul rapporto di fiducia (e proprio per questo, per l’instaurato rapporto di fiducia, il direttore è l’unico membro della redazione a poter essere licenziato, quando la fiducia viene meno, su due piedi).
Morale, appartenendo a un giornale militarizzato, i repubblicones sono liberi di esprimere le proprie opinioni, il proprio pensiero sulla pizza margherita, sulle piste ciclabili o sull’abbronzatura a raggi infrarossi. Ma se vogliono andar oltre, anche di un solo passettino, sanno di dovere uniformare le proprie opinioni, il proprio pensiero, a quello del capo.

In quanto all’indipendenza, al pari di tutti i giornalisti anche quelli della Repubblica appartengono alla categoria lavorativa dei dipendenti. Sono cioè a busta paga di Carlo De Benedetti. E mi dica lei, caro Bianchini, come si possa essere al tempo stesso dipendenti e indipendenti.
Paolo Granzotto

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