Milano - Un aiuto forse insperato, e senza dubbio autorevole: se non altro per la tonaca indossata dalla testimone che alle 10 di ieri mattina va a sedersi al banco dei testimoni del processo a Silvio Berlusconi per il Rubygate. Suor Maria Concetta è tutt’altro che una monaca di clausura abituata al silenzio dei chiostri: la sua missione la svolge nel duro mondo del disagio e dell’emarginazione. Quindi non mostra alcun imbarazzo nel comparire in un processo dove si parla di temi scabrosi. Ed è suor Maria Concetta a dire al tribunale che la sera del 27 maggio 2010 la questura di Milano effettivamente la contattò, chiedendole un posto per Ruby, ovvero Kharima El Mahroug, fermata poche ore prima per un accusa di furto. E fu la suora a dire alla questura che non c’era posto.
È un dettaglio importante, perché va a toccare uno dei temi cruciali del processo: la telefonata di Silvio Berlusconi ai vertici della questura di Milano, nella notte tra il 27 e il 28 maggio, che portò all’affidamento di Kharima al consigliere regionale Nicole Minetti. Da quella telefonata scaturisce l’accusa di concussione, la più grave contestata al Cavaliere. Secondo la Procura, Berlusconi avrebbe approfittato della sua carica di presidente del Consiglio per impedire che la ragazza marocchina, già ospite delle sue feste private ad Arcore, finisse in comunità.
In realtà, ha sempre sostenuto la difesa di Berlusconi, in comunità la ragazza non ci sarebbe comunque finita, perché tutti i centri di accoglienza contattati quella notte erano pieni. Se davvero questo censimento sia stato fatto, e con quali esiti, è uno dei temi del processo. E ieri sia la religiosa che un’altra dirigente di comunità raccontano di avere ricevuto dalla questura la richiesta di ospitare la ragazza, e di avere risposto picche: non possiamo, siamo pieni.
Racconta suor Maria Concetta al tribunale: «Tra il 27 e il 28 la questura ci contattò chiedendoci un posto per una ragazza residente fuori Milano, e cioè a Messina, e noi rispondemmo che non c’era posto, perché gli unici posti liberi erano quelli per i quali abbiamo una convenzione col Comune di Milano». La suora insiste sul concetto: «Abbiamo letto su un giornale che la notte del 27 non avremmo ricevuto nessuna telefonata dalla questura. Questo non è vero, perché ricordo perfettamente che ci telefonarono tra l’una e le due di notte». A rafforzare la sua versione arriva subito dopo la ex dirigente di un’altra comunità, «Arianna»: «La polizia ci chiamò la notte del 27 ma non c’erano posti liberi». Cosa accade, chiede il pm Sangermano ad un’altra testimone, quando nelle comunità non c’è spazio? «Tengono i ragazzi in camera di sicurezza tutta la notte, almeno così ci dicono, poi cosa succeda davvero non lo so». Interviene la difesa di Berlusconi: «A meno che non ci sia qualcuno a cui affidarli?» «Ovviamente».
Insomma: nella notte tra il 27 e il 28 maggio, secondo i legali del premier, la telefonata di Berlusconi non alterò in alcun modo quello che sarebbe stato il corso naturale degli eventi, perché l’affidamento dei minorenni ad un adulto responsabile, soprattutto nel caso che i centri di accoglienza siano saturi, fa parte della prassi. Certo, poi sullo sfondo c’è la domanda irrisolta che costituisce un altro passaggio chiave del processo: perché tanto interesse da parte del capo del governo per una minorenne sbandata? Risponde la Procura: perché Berlusconi voleva evitare il rischio che «Ruby» parlasse delle feste ad Arcore.
Caso Ruby, le suore danno ragione al Cav
In aula una religiosa conferma la linea della difesa: "Alla questura rispondemmo che non c’era posto in comunità"
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