Il castello di carte del prodismo

Gianni Baget Bozzo

Romano Prodi ha annullato di colpo la grande costruzione di Arturo Parisi, dando l'ennesima prova che la politologia non è la politica e che i partiti non reggono la fecondazione assistita, la riproduzione in vitro. Parisi aveva creato un'operazione perfetta dal punto di vista teorico, un missile a due stadi: l'Ulivo e l'Unione. Il primo stadio era un singolare partito riformista che prendeva nome dalla tradizione sconfitta del socialismo italiano e segnatamente da Bettino Craxi. A questo partito aderivano il Ds convertito al riformismo, la Margherita, lo Sdi, memoria tenue del riformismo craxiano e i repubblicani come quarto aggiunto. Perché tutto ciò si si chiamasse riformista è difficile a dirsi, tanto più che cominciò immediatamente dai postdemocristiani della Margherita la critica alla socialdemocrazia. L'Ulivo era una combinazione di sigle e non una fusione di storie.
Ma il paradosso stava nel fatto che la sintesi culturale del partito riformista era data unicamente dalla persona di Romano Prodi, senza che esistesse un qualche ragione oggettiva perché l'ex presidente dell'Iri, democristiano di sinistra, avesse titoli per esprimere con il suo solo volto l'unità di postcomunisti, postdemocristiani, postsocialisti e postrepubblicani. Il sistema era congegnato in modo che egli fosse il solo punto di identificazione di questa congiunzione anomala di tradizioni politiche. Lo schema di Parisi, il prodismo, era il fattore unificante. Le tradizioni dei vari partiti dovevano abdicare il loro potere alla leadership che esse costituivano senza altra ragione che la loro stessa scelta.
Il secondo stadio dell'operazione di Parisi era una coalizione culturalmente non definita se non dalla adesione elettorale alla linea politica del nuovo partito riformista. Non si era mai visto un progetto così perfettamente costruito a tavolino, eppure sembrava che funzionasse e che veramente un politologo avesse trovato la chiave di combinazione differenziata in un sistema di alleanze, in cui ciascun partito rimaneva se stesso e si identificava nel volto di Romano Prodi e del mandato in bianco a lui conferito. Politicamente questo schema era un circolo quadrato, eppure lo straordinario sembrava che lo schema di Parisi funzionasse e che il volto di Romano Prodi divenisse la sintesi politica di tutte le tradizioni italiane. E si pensava soprattutto che il leader del prodismo fosse Prodi, cioè che egli impersonasse in politica la politologia di Arturo Parisi.
Il castello di carte di Parisi è caduto al primo soffio: è bastato che la Margherita vedesse la possibilità di crescere a spese del centrodestra perché il no di Rutelli all'Ulivo distruggesse il primo stadio, quello decisivo dell'opera di Parisi. È bastato un colloquio con D'Alema e Fassino perché Rutelli vincesse la partita e cadessero così di fatto a un tempo la lista unitaria dell'Ulivo, la scissione della Margherita, il partito riformista e la Fed. È Prodi stesso che, da buon democristiano, appena ha visto che i Ds non sostenevano il prodismo assoluto, si è accontentato di essere non il leader della coalizione per forza propria, ma solo il designato dal consenso dei partiti: un delegato ma non un leader, né re, né governatore. E in cambio ha ottenuto le primarie, che sono un atto dei partiti, non un atto del candidato. A godere di questo fatto è Bertinotti, che ne è il grande beneficiario. Egli, esponente della sinistra radicale, vede cadere il partito riformista, può prendere atto che il riformismo socialista non è in Italia un linguaggio politico vincente. L'insieme differenziato dei partiti eguali in dignità è quello che rimane dell'Unione prevista come secondo stadio per Parisi. Inoltre Bertinotti può radicalizzare le primarie con la sua candidatura, ponendo i Ds nell'ingrata posizione di non poter giocare in proprio la carta riformista e di doversi definire solo nel supporto della candidatura Prodi, che essi per di più hanno privato di ogni possibile fascino offerto dalla sua autonomia. I Ds devono combattere la loro battaglia nascosti sotto un volto che non li rappresenta. I socialisti e i repubblicani, la componente laica dell'alleanza, rimangono disarcionati, colpiti dal rischio di non ottenere il 4% nella quota proporzionale. Prodi ormai non è più un leader, è solo un rappresentante di una coalizione e le primarie non possono dargli autorità diversa da quella che di volta in volta gli conferiranno i partiti. Riformismo come linguaggio e prodismo come forma politica sono crollati di colpo, di fronte alla paura di Prodi di essere abbandonato da quelli stessi che Parisi voleva fargli dominare.

Lo schieramento di sinistra è così oggi una coalizione di partiti che non ha più un quadro culturale politico di riferimento
bagetbozzo@ragionpolitica.it

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