Cultura e Spettacoli

Cattelan e la tomba per Craxi L’arte torna ad avere coraggio

Più ancora della pittura, la scultura è legata a una visione spesso tradizionale soprattutto quando la si interpreta con il predominio del materiale. Difficilissimo uscire dal cliché del lavoro, della fatica, dello scontro con la pietra o il metallo, lo scultore si pone dunque come una specie di eroe resistente che riemerge da chissà quale passato, impolverato, scalpello in mano, lontano dal presente e dai suoi cambiamenti.
Carrara è stata fino a ieri il regno di questa visione «romantica» e inattuale della scultura, se è vero che la sua Biennale (aperta da oggi al 31 ottobre) ha dovuto aspettare ben la quattordicesima edizione per smarcarsi da un percorso fin troppo tradizionale, legato al marmo delle cave sulle Apuane, e contaminarsi con i linguaggi dell’attualità. In poche parole, diventare anch’essa arte contemporanea.
È questa la chiave con cui affronta la sfida il curatore Fabio Cavallucci, già direttore della Galleria Civica di Trento, per una mostra che, da qualsiasi parte la si prenda, aveva bisogno di una riverniciatura. E lo fa certo accollandosi dei rischi -chissà come la prenderà il pubblico purista dei cavatori e degli accademici- ma anche andando dietro al trend consolidato delle rassegne internazionali che impone il mix calibrato di una serie d’ingredienti, come la delocalizzazione in più spazi, il risvolto socio-politico, l’inserimento di discipline parallele e, soprattutto, un po’ di polemica che alla fine non guasta mai, anzi.
«Postmonument», questo il titolo, corrisponde al preciso bisogno dell’arte attuale di porsi in coda a un processo evolutivo che ha visto passare in rassegna le avanguardie e ora non può che riflettere su se stessa invece di elaborare forme nuove. Quando due anni fa inaugurò la nuova sede del New Museum a New York con una serie di mostre chiamate «Unmonumental», era evidente (dopo l’11 settembre) il fallimento di un’idea di arte magniloquente e sovradimensionata. In particolare la scultura pubblica, erede del monumento celebrativo equestre, dei caduti in battaglia, effigie del dittatore o del potere totalitario, deve essere sostituita da un’opera leggera che si pone in dialogo con il contesto in cui viene eretta e in relazione con gli abitanti del luogo. Il monumento rappresentava le ideologie del Novecento, cioè la modernità, ed è sintomatica di tale mentalità la dichiarazione dell’ex presidente sovietico Gorbaciov che, nel catalogo, dichiara sbagliato l’abbattimento delle statue di Stalin in quanto devono conservare e trasmettere la memoria, quand’anche drammatica. Oggi, invece, che viviamo il tempo della cronaca, la verticalità della storia è stata sostituita dall’orizzontalità dell’eterno presente, quindi il monumentalismo non ha più senso d’esistere.
Invece che dalla terra al cielo, dal basso all’alto, l’idea di questa Biennale si espande a macchia d’olio sul territorio carrarese, coinvolgendo nella riflessione altri ambiti, in particolare il linguaggio dell’architettura la cui fusione con l’arte visiva è ormai prassi corrente. La presenza in mostra di archistar del calibro di Norman Foster, Massimiliano Fuksas, Frank Gehry, Zaha Hadid, Daniel Libeskind ecc... pone l’attenzione sul margine sempre più sottile che divide le due discipline; in maniera analoga funziona anche la Body Art, il corpo è in fondo scultura mutevole dell’essere umano inteso come elemento plastico, dunque non poteva mancare l’ultima performance di Vanessa Beecroft.
Rileggendo con attenzione le radici della scultura italica, da Bistolfi a Fontana, passando per Martini e Melotti, la Biennale di Carrara presenta diversi big internazionali, artisti a tutto tondo (come Ortega, Sierra, Wearing, Yona Friedman, Gaillard ecc...) che non possono definirsi letteralmente scultori, proprio perché il curatore ritiene ormai superate le etichette e le definizioni. In un parterre di livello alto ma tutto sommato specialistico, non poteva mancare la polemica di cui queste mostre hanno bisogno come il pane per attrarre pubblico. Passando velocemente sulla gigantesca cacca in marmo prodotta da Paul McCarthy, che Sigmund Freud leggerebbe come la difficoltà di uscire dalla fase anale, l’attenzione mediatica si è ancora una volta concentrata su Maurizio “Pierino” Cattelan e l’ennesima burla rimasta però a metà strada. A Carrara egli avrebbe voluto sostituire provvisoriamente il monumento a Giuseppe Mazzini, che si erge nella piazza Risorgimento, con un’altra statua dedicata a Bettino Craxi. Il progetto, però, è stato bocciato dalla locale sovrintendenza. Dopo aver occupato le cronache dei giornali, Cattelan ha deciso di “ripiegare” sul cimitero monumentale di Marcognano dove ha collocato un ceppo funebre in stile Liberty in onore del leader socialista.
Peccato che l’approccio nei confronti dell’artista padovano, peraltro da lui sollecitato, sia sempre in termini ironico-scandalistici, perché questo lavoro ha anche risvolti davvero profondi. Si parla della paura dell’esilio, della lontananza, di morire lontano dalla patria. Un’opera drammatica, capace di muovere il sentimento della commozione per una vicenda umana oltreché politica.

Mazzini e Craxi entrambi padri dell’Italia moderna, entrambi sconfitti, in una lettura della nostra storia non conformista.

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