Un po’ di pasta fredda, formaggio spalmato sui cracker, mezzo bicchiere di vino. «Champagne?», chiede il pilota. «No, vino bianco normale». Il pilota ci guarda: «Vede? Sull’aereo privato il comandante fa anche l’hostess...», sorride. Altro che l’Alitalia. Silvio Berlusconi domanda ancora qualche cracker, si assicura che tutti a bordo abbiano la cena («Ci sono più passeggeri del previsto, vero? »). Poi si rilassa. Sono le dieci di sera. È stata una giornata lunga, faticosa, chi lo accompagna sull’aereo è stremato. Lui che ha tenuto due comizi in Sardegna, più uno al telefono (col Veneto), un paio di conferenze stampa volanti, decine di interviste e infiniti colloqui privati, è il più pimpante di tutti. «E pensare che la descrivono come vecchio e stanco», abbozzo, accasciandomi sulla poltrona. Il mio fisico giovanile è punto sul vivo dell’orgoglio: solo aver seguito la maratona mi ha semidistrutto. E lui, che l’ha corsa, invece, è fresco come una rosa. Mi guarda e sorride: «Ha visto? È così tutti i giorni. E oggi mi è ancora andata bene... ».
Perché?
«Non ho le mani graffiate.
Né lividi sulle braccia. Succede
spesso. L’entusiasmo
della folla è travolgente...
Mi accolgono come se fossi
una rockstar. Lo sa perché
ho deciso di non portare
più la cravatta?».
No.
«Perché un giorno ho rischiato
di farmi male. Tanto
era l’entusiasmo attorno
ame che mi hanno afferrato
involontariamente per la
cravatta e mi hanno trascinato
contro un tubolare. Allora
ho pensato: in piazza
occorre un altro abbigliamento.
Devo stare comodo,
come quando sono en privé».
Nessuna decisione strategica?
Nessun pool di esperti?
Nessun messaggio nascosto?
«Io non ho ovviamente nessun
consulente per il look.
Mity Simonetto si occupa solo
dei servizi fotografici per
i giornali. Cosa indossare lo
decido io. Ma ciò che conta
è altro».
E cioè?
«Il fatto che trovo dappertutto
una grande passione,
uno slancio incredibile, un
desiderio di vicinanza anche
fisica».
Simile alle altre campagne
elettorali, immagino.
«No. Di più. Non ho mai visto
tanto entusiasmo in una
mia campagna elettorale».
Eppure l’accusano di avere
tenuto i toni bassi: niente
promesse, niente miracoli,
niente "sole in tasca".
«Sono stato semplicemente
realista. Bisogna prendere
atto della realtà che la sinistra
ci ha lasciato: siamo
un Paese in emergenza, cercare
di rialzarlo è un dovere
e un onere».
Tornare a Palazzo Chigi
dunque sarebbe un onere?
«Sì. Al 100 per cento. Certo:
c’è anche l’intima soddisfazione
di chi torna per
portare a compimento ciò
che aveva iniziato nella precedente
esperienza di governo.
Ma c’è soprattutto il
senso di responsabilità per
la fiducia che la gente ha in
me. Ha visto la gente che
partecipa ai miei comizi?».
Ho visto.
«Uno di loro oggi mi diceva:
Silvio, non è ancora nato il
tuo successore... E io ho risposto:
peccato».
Quali sono le possibilità di
vittoria che si dà oggi?
«Possibilità di vittoria? 100
per cento».
Ma al Senato non c’è il rischio
di qualche sorpresa?
La vittoria netta nei voti
potrebbe non coincidere
con una maggioranza sicura
in aula?
«Se succede è colpa del premio
di maggioranza su base
regionale, un premio
che io non volevo. Non potendo
farlo su base nazionale,
sarebbe stato meglio
abolirlo del tutto».
Teme per il Lazio?
«No. L’unica cosa che temo
sono i brogli e gli inganni.
Nelle altre elezioni ci hanno
tolto quasi un milione di
voti. Ma questa volta la distanza
è tale che ogni loro
sforzo sarà inutile».
Fra i possibili inganni va
pure inserita la scheda-confusione?
«No, quel pasticcio danneggia
tutti in egual misura. Però
è un’altra dimostrazione
della mancanza di buon
senso della sinistra al governo.
Della sua totale incapacità».
A proposito di incapacità:
il problema dei rifiuti. Si
stabilirà davvero a Napoli?
«Almeno tre giorni a settimana
finché l’emergenza
non sarà finita».
Ma come risolverà l’emergenza?
«Per il medio periodo, costruendo
termovalorizzatori
dappertutto, in ogni provincia,
secondo le emergenze».
E per il breve periodo?
«Ho delle idee precise e concrete.
Se gliene dico una mi
promette che non la scrive?».
Promessa mantenuta. E
l’Alitalia?
«Se non la svendono prima
delle elezioni, la salveremo.
L’altro giorno ho ricevuto
la lettera di un artigiano
con un assegno di 150
euro. “Non posso dare di
più”, mi ha scritto, “ma voglio
offrire il mio contributo
per evitare la vergogna
che la nostra compagnia di
bandiera finisca nelle mani
di un altro Paese”. Mi ha
colpito quella lettera. E mi
ha fatto venire un’idea».
Quale?
«Incontrando le varie associazioni
di categoria (l’ultima
è stata la Confapi) ho
chiesto alla platea: chi di
voi se la sente di sottoscrivere
una fiche per Alitalia se
ve lo chiedesse il vostro presidente
del Consiglio?».
Immagino la risposta.
«Hanno alzato tutti la mano.
Tutti pronti. Del resto io
non ho mai chiesto soldi
per il partito: ora posso
chiedere a tutti di diventare
azionisti di Alitalia. E anche
di volare Alitalia».
Ma questo appello all’azionariato
diffuso significa
che nella cordata non ci saranno
più i grandi nomi
che sono usciti sui giornali
nei giorni scorsi?
«No, ci saranno anche quelli.
C’è una compagine molto
allargata di imprenditori
importanti che si faranno
avanti non appena questa
sciagurata trattativa finirà.
Alitalia resterà italiana e
tornerà in attivo».
Dove troverà le risorse per
abbassare le tasse, costruire
le infrastrutture e rilanciare
il Paese?
«Abbiamo diversi progetti.
Uno dei più importanti è la
cessione di immobili del patrimonio
dello Stato, che vale
1.800 miliardi di euro,
cioè più del debito pubblico
italiano. Penso per esempio
alle caserme nel centro
delle grandi città che potrebbero
diventare centri
commerciali o direzionali».
Quanto pensa che si possa
ricavare ogni anno dalle
dismissioni?
«Almeno 15 miliardi di euro,
ma si potrebbe arrivare
anche a 30 miliardi. Tutte
somme che dovrebbero essere
destinate all’investimento
in infrastrutture e alla
riduzione del debito».
Gli italiani chiedono di ridurre
soprattutto i costi
della politica.
«In una grande azienda è
dimostrato che i costi si possono
ridurre del 30 per cento,
senza diminuire il fatturato
e la profittabilità. Dovremo
farlo anche in quella
grande azienda che è la nostra
Pubblica Amministrazione.
Ci si rimbocca le maniche
e si comincia a risanare.
In cinque anni dovremo
impegnarci per portare il
debito pubblico sotto il 100
per cento».
E intanto taglierete anche
le tasse?
«Sì, a cominciare dai provvedimenti
che presenteremo
al primo Consiglio dei
ministri: l’abolizione dell’Ici
sulla prima casa e la detassazione
degli straordinari,
una misura che non è ancora
stata capita fino in fondo.
Una misura davvero rivoluzionaria».
Rivoluzionaria?
«Sì: perché se lavoratori e
imprenditori si metteranno
d’accordo, si potranno di
fatto detassare tutti gli aumenti
di stipendio».
Poi c’è la proposta sull’Iva...
«L’Iva non dovrà più essere
versata in anticipo, ma solo
quando sarà stato incassato
il pagamento. Abbiamo
cominciato a parlarne anche
con l’Unione europea».
Ha qualcos’altro in mente?
«C’è un’iniziativa che mi
piacerebbe molto, ma anche
questa gliela posso dire solo se non la scrive...».
Presidente, non posso
mantenere tutte le promesse.
Se no che giornalista
sarei...
«Dunque: l’idea sarebbe
quella di regalare agli italiani,
dopo tutto quello che
hanno subito con Prodi, un
mese senza tasse. Il mese
della libertà. Probabilmente
non si potrà fare, perché
costa troppo. Ma come vede
la fantasia per risolvere
i problemi non ci manca».
Ha un’idea anche per risolvere
il problema dei ministri?
«Non c’è nessun problema
con i ministri. Non ne abbiamo
ancora parlato».
Manterrete l’impegno: 12
ministri e non più di 60 cariche
di governo in tutto?
«Sì. Lo manterremo. E ci saranno
quattro donne».
Sa già chi saranno?
«Tre di queste quattro le ho
in mente. Una sarà sicuramente
Stefania Prestigiacomo».
Michela Vittoria Brambilla
avrà un incarico di governo?
«Credo di sì. Ma le ho detto
che non abbiamo ancora
iniziato a parlarne. L’unico
incarico mai messo in discussione
è il ministero dell’Economia
a Giulio Tremonti».
Bossi?
«Non ho detto quello che
mi è stato attribuito. Sono
le solite sparate dei giornali
di sinistra, Repubblica e
Unità in testa, che vogliono
disinformare».
Il senatùr poteva risparmiarsela
quella dei fucili...
«Ma lo sanno tutti che i fucili
non ci sono. Lui si esprime
così, per paradossi».
Si parla di Gianfranco Fini
presidente della Camera...
«Perché no? Ma le ripeto:
non ne abbiamo ancora discusso».
... E di Roberto Formigoni
presidente del Senato...
«Non le dico nulla di più.
Non è il momento. Adesso
dobbiamo solo impegnarci
per questi ultimi giorni di
campagna elettorale».
A proposito di ultimi giorni
di campagna elettorale.
Ho notato un certo cambiamento
di toni nei confronti
della sinistra. Adesso lei è
molto più duro.
«Più deciso, direi. Il fatto è
che mi ero illuso: avevo incontrato
Veltroni e gli avevo
creduto. Pensavo che finalmente
potesse nascere
una sinistra diversa, che
fossimo vicini a una Bad Godesberg
italiana. Invece mi
sono sbagliato: sono sempre
i soliti».
Quando se n’è accorto?
«È lampante. Veltroni aveva
detto che si sarebbe presentato
da solo e invece si è
alleato con il peggio del peggio,
con Di Pietro. Il che dimostra
che nel Pd c’è ancora
una radicata cultura giustizialista.
Poi aveva promesso:
divorzierò per sempre
dall’estrema sinistra,
quella che ancora orgogliosamente
vuole chiamarsi
comunista. E invece quando
si è trattato del potere
locale nelle elezioni amministrative
si è messo ancora
con Rifondazione comunista
e con i comunisti italiani
che aveva giurato di
abbandonare per sempre.
Un altro impegno mancato.
E infine, per asseverare la
sua pretesa di essere il nuovo,
l’innovazione, il futuro,
aveva annunciato una classe
dirigente assolutamente
nuova. Poi ha presentato le
liste e nelle liste ci sono tutti,
ma proprio tutti i ministri,
i vice-ministri, i sottosegretari
del Pd che sono
ancora al governo con Prodi,
a combinare i danni che
sappiamo. Nessuna novità,
anzi continuità assoluta,
una promessa totalmente
mancata».
E allora?
«Allora i fuochi di artificio
dell’inizio della campagna
elettorale sono finiti. Sono
finiti gli effetti speciali. Veltroni
da buon cineasta diplomato
in fiction potrebbe
scrivere come finale della
sua campagna la didascalia
che si legge alla fine di
molti film: “Le vicende raccontate
in questo film non
hanno alcun riferimento a
fatti realmente accaduti”».
Cioè?
«Cioè in Italia esiste una sola
sinistra della realtà. E
quella al governo è quella
dei fatti, è quella che ci lascia
una drammatica eredità.
La pressione fiscale record,
la crescita zero,
l’apertura delle frontiere
agli extracomunitari con il
calo verticale della sicurezza
dei cittadini, il blocco dei
cantieri per le grandi opere,
l’immane tragedia dei rifiuti.
L’altra, la sinistra futura
di Veltroni, è la sinistra
delle parole, dei sogni, delle
fantasie. Credo che gli italiani
di buon senso l’abbiano
assolutamente capito».
Le dà fastidio quando Veltroni
la chiama "l’esponente
dello schieramento
avversario", senza citarla?
«Per nulla. Penso che Veltroni
addossandosi una missione
impossibile si sia rovinato
con le sue mani».
Di Pietro è un punto fermo
dei suoi comizi...
«Mi fa orrore».
Dicono però che il vostro
programma e quello del
centrosinistra si assomiglino...
«Hanno copiato. Ma sa
qual è la differenza? Loro
non hanno mai rispettato i
programmi. Mai. A loro i
programmi, come quello
delle 281 pagine di Prodi,
servono soltanto per conquistare
il potere che poi gestiscono
nel loro interesse,
nell’interesse delle loro
clientele, delle loro corporazioni,
delle loro cooperative».
Quindi nessuna possibilità
di collaborazione dopo il
voto?
«Non è possibile fare accordi
con questa sinistra, che è
rimasta quella di sempre.
Per loro lo Stato è solo il partito
che ha preso il potere:
un’idea che non posso accettare
perché segna il confine
tra regime e democrazia».
Vi accusano di dire sempre
le stesse cose.
«È vero: noi questa la chiamiamo
coerenza».
E Casini?
«Casini ha preferito essere
il primo in un villaggio che
il secondo a Roma. Ma si
troverà da solo perché molti
dell’Udc sono rimasti qui,
con noi, nel Popolo della Libertà,
mentre lui se n’è andato».
Cosa ne pensa della campagna
elettorale di Giuliano
Ferrara?
«Abbiamo tentato di dissuaderlo
in tutti i modi. Spero
che non ci sottragga troppi
voti, dal momento che i
suoi saranno prevalentemente
voti del Popolo della
Libertà».
Lei ha già deciso dove voterà?
«Nel solito seggio. Quello
dove votavo con la mamma,
anche se adesso lei non
c’è più».
Le sono mancati i suggerimenti
di mamma Rosa in
questa campagna elettorale?
«Sì, mi manca la telefonata
quotidiana, quella in cui mi
confidava quanti rosari aveva
detto per me e commentava
le immagini viste alla
Tv. Mi mancano le sue raccomandazioni.
Ancora
adesso ogni tanto quando
salgo in auto mi viene
l’istinto di chiamarla, come
facevo sempre».
L’intervista è quasi finita:
sono riuscito a rovinarle
l’unico momento di quiete
sull’aereo...
«Ma no, è stato un piacere.
Adesso sto bene, stamattina
invece...».
Mi hanno detto i suoi collaboratori
che la giornata
non era partita benissimo...
«Ogni giorno mi spaventano
un po’ gli impegni che
mi aspettano. L’ha visto? È
molto faticoso, proprio perché
sto cercando un modo
nuovo di fare politica: i miei
non sono comizi, sono conversazioni
a cui la gente
partecipa con pieno coinvolgimento.
E poi gli abbracci,
i baci, le strette di mano, gli
autografi, i consigli».
Uno dei suoi collaboratori
mi confidava che lei è un
diesel...
«Diesel? Forse perché tengo
botta sulla lunga distanza.
Maio mi sento un velocista.
E i miei comizi spesso
sono veri e propri exploit,
pieni di novità e di battute
improvvisate, anche se pochi
giornali (compreso il
suo, direttore) registrano
l’entusiasmo e la passione
che mi accolgono e mi accompagnano».
Siamo prudenti, presidente.
«Stasera, invece, io sono
proprio soddisfatto. E allora
mi premio con un bicchiere
d’amaro. Comandante,
me lo porta?».
Prende l’amaro solo se è soddisfatto della sua giornata?
«Esatto. Me lo consento solo se ho adempiuto a tutti i miei doveri».
E quindi?
«Quindi lo prendo sempre, caro direttore».
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