Politica

Cavaliere, non si lasci scippare Obama

Obama uscì dal suo ufficio al Senato: «Oggi ho trovato un fratello». Francese, forte, nuovo: Nicolas Sarkozy. Era meno di un anno fa. Entusiasta, Barack. Gli dissero del caos alle banlieue, dei sindacati infuriati con Sarkò, della nuova svolta a destra della Francia. «Nicolas mi sembra uno che conosca i problemi del suo Paese e come risolverli. Voglio andare a trovarlo e vedere come lavora». Punto e a capo. Punto e basta. C’è qualcosa che stride nell’equazione facile facile che la sinistra italiana fa con Barack: «È democratico quindi è roba nostra». Qui s’inceppa qualcosa. Seimila chilometri di distanza e l’Oceano Atlantico in mezzo deformano i messaggi. Veltroni si ispira a Obama, lo vuole, lo prende. E invece Berlusconi non deve farselo scippare. Perché c’è più lui di Walter, in Barack.
Se scavi e finisci alla polpa vera, senza la mediazione delle tv italiane, trovi un Obama che non c’entra molto col veltronismo. Li avvicina giusto il nome del partito che rappresentano. Si vede subito: Barack cammina fiero, con la faccia alta per farsi inquadrare bene. È cresciuto con la politica fatta sulle strade o davanti alle telecamere. Sfugge alla riunione di partito, è lontano dalla trafila del giovane attivista democratico che fa la gavetta prima di arrivare. Parla con la voce alta: idee precise e semplici. Lo senti: «Yes, we can; Yes, we can; Yes, we can; thank you Chicago, let’s go to work». Capopopolo e non capoclasse. È uno che suscita passioni, come Berlusconi. È un volto, come il Cavaliere. È uno che è arrivato perché c’ha creduto. Ogni cosa che ha desiderato è riuscito a ottenerla. Ricorda qualcuno che non è Walter. L’America non chiede a Barack che cosa farà, vuole semplicemente che lo faccia, qualunque cosa sia. Trascina, coinvolge, attrae. È il nuovo, in un Paese che sembra simile all’Italia del ’94. Obama detesta il «sì-ma-anche». Barack cancella i compromessi della lingua, al massimo rischia di sforare nella gaffe piuttosto che riempirsi di retorica diplomatica. Uno così non c’entra col Pd italiano. Se ne sono appropriati indebitamente e fanno anche finta di non sentire. Tipo: Barack è totalmente pro Israele. Dice che da presidente vorrebbe risolvere il conflitto in Medio Oriente. Così, però: «Il punto di partenza è garantire la sicurezza di Israele. Tutto il resto viene dopo». Tutto. E allora l’Iran può pure preoccuparsi. Con Obama presidente l’idea di avere rapporti Washington-Teheran distesi è un’utopia. «Dobbiamo impedire che l’Iran completi il suo programma nucleare». Basta. Invece no, perché Barack spiega meglio quello che la sinistra italiana non vuole ascoltare: è vero che non voleva la guerra in Irak, però per tutelare l’America ovunque nel mondo, lui attaccherebbe senza difficoltà. L’Onu? Chissenefrega: «Il presidente degli Stati Uniti non deve esitare a usare la forza unilateralmente, non solo per proteggerci in caso d’attacco, ma per anche solo per tutelare i nostri interessi nazionali». Ciao ciao multilateralismo e addio diplomazia.
Se non è ancora sufficiente, c’è dell’altro. Per dirne una: Obama è contro i matrimoni gay. Vuole che siano rispettati i loro diritti, ma contesta l’idea che si possano sposare. Per dirne un’altra: domattina, Barack si sveglierebbe e chiederebbe al Congresso di finanziare una legge da qualche miliardo di dollari per aumentare i finanziamenti all’esercito e per assumere altri militari. Non uno: «Sessantacinquemila soldati e 27mila marines». Militari forti, esperti, pronti. Cioè: se domani l’America fosse attaccata, Barack vorrebbe truppe pronte a invadere qualunque Paese. Armi, tante. Armi per i soldati, ma pure per la gente normale. Obama è a favore del diritto che spaventa anche il più centrista degli uomini della sinistra italiana: la possibilità di ogni americano di tenersi in casa una pistola. Poi c’è l’energia: vuole investimenti sui biocarburanti, certo. Però dice che senza il nucleare non c’è domani. Nuove centrali, più energia, più pulita. A Veltroni, Barack ricorda Kennedy. Per Obama è meglio Lincoln, cioè il bisnonno dei moderati destrorsi americani. A Clinton preferisce Reagan e non solo per togliersi lo sfizio di contestare il marito della sua avversaria. Si specchia in Ronald perché pensa che emozionare come faceva Reagan è metà del compito del presidente degli Stati Uniti. Novità, cambiamento, futuro. Il gioco dei paragoni non finisce. Barack è un Blair americano. All’inizio anche Tony fu scippato dalla sinistra. Dissero che era ovvio: un laburista sta per forza da quella parte. La storia non è stata d’accordo.

Però è solo la storia.
Giuseppe De Bellis

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