Cavani: «Porto in tv Einstein il genio da cui è partito tutto»

da Roma

Il tempo è galantuomo e infatti Liliana Cavani, una delle due registe italiane note all’estero (l’altra, è Lina Wertmüller), da quando il suo Portiere di notte (1974) fece scoprire che vittima e carnefice si attraggono eroticamente, come lì accadeva tra Charlotte Rampling e Dirk Bogarde, sta per cavarsi uno sfizio. La Russia, quello stesso paese che ha vietato i suoi film «non allineati» fino al crollo dell’Urss, dunque fino all’impero del comunismo più ottuso, la chiama a gran voce a San Pietroburgo. A dirigere un capolavoro di Mascagni, Cavalleria rusticana, da ieri di scena nel prestigioso Teatro Mikhailovsij, ora tempio dell’opera italiana per volontà e capriccio del magnate e melomane russo Vladimir Abramovich Kekhman. «Sarà una regia sobria, dopo quella, del 1966, con la direzione musicale di Muti, a Ravenna», precisa la Cavani. Tra il Don e il Volga ci amano, ma si avverte una fragranza di restituzione dell’onore in questo affidavit. «Penso che il pubblico russo sia ideale per opere liriche come Cavalleria, Traviata, Tosca o Alceste, anche perché la Russia possiede la letteratura dell’Otto e Novecento più affascinante e profonda sulle passioni umane», dice la regista classe 1933.
Il passo elastico, la figura asciutta, Liliana Cavani, sciarpa di lana rossa al collo, è una donna senza età. Ma la sua vicenda artistica rimane scolpita, tra le date d’una storia italiana che cambia poco e che, di recente, l’ha vista stupirsi del «niet» antipapa, da parte degli studenti della Sapienza, organizzati intorno alle proiezioni del suo Galileo, film del 1969, dove la regista di Carpi fonde critica al potere dispotico e modi narrativi di alta suggestione visiva. «Negando l’accesso al pontefice, gli universitari romani si sono comportati come si comportò la Curia, ai tempi di Galileo: sono stati superficiali. Per fortuna, oggi il mondo della discussione è più libero e Benedetto XVI, è un teologo raffinatissimo: un processo a Galileo non sarebbe più possibile, perché non si prende più alla lettera la Bibbia», riflette l’autrice, dai suoi esordi accompagnata da una fama di contestatrice implacabile.
Nel 1971, in effetti, firmò il documento pubblicato sul settimanale L’espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Ma erano altri tempi, né impressiona sentirla ridicolizzare l’Unione Sovietica degli anni bui. «Mi trovavo sulla piazza Rossa, nel 1993, perché l’Unione degli autori moscovita m’aveva invitato alle proiezioni dei miei film. I russi volevano conoscere i registi proibiti: me e Buñuel. Naturalmente, il Comitato centrale aveva vietato anche Bellocchio e Bertolucci... A un certo punto, un noto cinecritico italiano, a sua volta a Mosca, mi chiese: “E tu che ci fai qui?”, a ribadire un’incongruenza tra la mia arte e la visione del Komintern. “Ma che ci fai tu, qui, piuttosto?”, gli risposi. Tra i due, ero più in asse io, visto lo sfacelo di quella dittatura. Un giornalista moscovita mi raccontò d’aver visto Portiere di notte a suo rischio e pericolo, narra l’artista, che ha terminato le riprese del film televisivo Einstein, che andrà in onda in primavera su Raiuno, con Vincenzo Amato nel ruolo del celebre fisico, Maya Sansa e Sonia Bergamasco nei ruoli, rispettivamente, di prima e di seconda moglie del genio.
«Desidero che gli spettatori conoscano Einstein, perché nessuno sa chi è quest’icona, da cui tutto è partito, nel XX secolo. L’ho seguito dai primi anni universitari, tratteggiandolo nei suoi aspetti più umani», spiega la Cavani, in questa produzione Rai assistita da Claudia Mori. Da Milarepa (1974), girato in Nepal, alla scarna biografia San Francesco (1966), con Mickey Rourke, Liliana, una carriera coerente nel segno della densità espressiva, è attratta dalle personalità eminenti, che descrive con sguardo da documentarista. «Amo i personaggi, che si fanno delle domande e si rendono conto che la vita è un’occasione fantastica, la più grande avventura». Spigolosa, quando dice d’aver rifiutato di entrare in Rai, dopo aver vinto il concorso («mi avrebbero ingabbiato, come regista interna»); amara, mentre rievoca le censure dei socialisti al potere, all’epoca di Saragat («avevano il socialismo nel nome, ma i miei documentari sui bassi di Napoli, o sul problema della casa, al Sud, me li tagliarono»), diventa una lama di coltello, se si parla di Portiere di notte. «Il film nacque dal mio documentario sulle donne della Resistenza, che mi fecero scoprire la sindrome di Stoccolma, aprendomi un mondo. Ma se a Parigi, grazie al mio film, divenni amica del filosofo Michel Foucault, in Italia mi criticarono, perché la donna stava sopra l’uomo, nelle scene di sesso. Quanta rozzezza! La rozzezza, che ora vedo in giro.

È giusto che il Papa richiami all’etica dell’informazione: basta un nulla e gli esseri umani, privi di memoria storica, potrebbero ripetere l’orrore nazista, frutto dell’ignoranza europea. A Carpi, ci furono solo due antifascisti: uno era mio nonno, l’altro Odoardo Focherini, un giusto che ha salvato centodieci ebrei e che sarà beatificato».

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