Ma il cd «Living With War» è tutto rock e rabbia

Antonio Lodetti

E dopo il «dream concert» arriva l’incubo. L’anima in pena di Neil Young continua a giocare con la medaglia e il suo rovescio, ricordando tenacemente a tutti che la musica è vita, ovvero un urlo che a volte sprofonda nel dramma, che la voce è rantolo più che bel canto, che rock fa rima con country. Così dopo aver celebrato l’America rurale con Prairie wind, uscito solo otto mesi fa, il cantautore torna nel mare agitato del rock con Living with war, album elettrico, sporco, graffiante, che gronda rabbia contro la guerra dalla prima all’ultima nota e dalla prima all’ultima parola. I testi sono semplici, quasi didascalici (in Let’s impeach the president, accompagnato da un coro di cento voci canta: «Incriminiamo il presidente per aver mentito e portato con l’inganno il nostro paese in guerra abusando del potere che gli abbiamo dato»; in Looking for the leader chiede: «Cerchiamo un leader che riporti il paese a casa riunendo il rosso il bianco e il blu... Spero che ci ascolti, e che sia una donna o un nero... può darsi che sia Obama o Colin Powell a distinguere il bene dal male») ma interpretati con passione su chitarre distorte, basso e batteria (Rick Rosas e Chad Cromwell) durissimi e a tratti una tromba.

Un disco pieno di energia, compatto e con buone ballate (Shock and awe, Flags of freedom, After the garden) anche se manca il colpo da ko di Ohio, il capolavoro che Young scrisse negli anni ’70 dopo che quattro studenti furono uccisi dalla Guardia nazionale a un raduno per la pace. Una «protesta folk metal - come dice il cantautore - per discutere con gente che non la pensa come me».

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