La Cdl: il nostro sì alla Camera non salverà l’Unione al Senato

La Cdl: il nostro sì alla Camera non salverà l’Unione al Senato

Roma - Perseguita Romano Prodi, il numero 158. Quella «maggioranza politica» che il centrodestra continua a pretendere in Senato, anche dopo il voto sull’Afghanistan di Montecitorio. Se non c’è, il governo deve dimettersi: lo dicono Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, facendo eco a Silvio Berlusconi.
Per il leader di An, è un «problema di opportunità politica». Per il numero uno dell’Udc, un «dovere morale». Ma ambedue, d’accordo con il Cavaliere, aspettano al varco di Palazzo Madama l’Unione. Insomma, il largo sì della Camera sulle missioni all’estero non può tranquillizzare Prodi. Casini spiega che è stato «un atto di responsabilità nazionale dell’opposizione», ma al Senato bisognerà vedere se la maggioranza sarà «autosufficiente». Il segretario centrista Lorenzo Cesa finisce la frase: «Se non è autosufficiente sulla politica estera abbia la sensibilità di dimettersi». Il voto alla Camera mostra una maggioranza divisa ed è «propedeutico» a ciò che potrà accadere al Senato. Stavolta, aggiunge, l’Udc ha fatto prevalere «l’interesse a dare una mano ai nostri soldati sugli interessi di bottega», ma a Palazzo Madama si vedrà che il Paese è «ingovernabile» e Prodi dovrà fare «una seria riflessione».
Per Fini si aprirebbe «un enorme problema politico» se i 158 voti di senatori eletti non ci saranno: ciò smentirebbe «clamorosamente» le affermazioni del premier sull’alleanza «coesa» che lo sostiene. «Nonostante il voto di fiducia al governo la maggioranza non è tale». Il capogruppo Ignazio La Russa spiega che il «sì» di An vuole dare «pieno sostegno e solidarietà ai nostri giovani in divisa», ma ricorda che il governo è caduto su un voto di politica estera e che se in Senato il quadro si riproporrà dovrà «trarne le conseguenze». Chiama in causa il Quirinale, polemizzando con Francesco Cossiga che nega l’esistenza della «maggioranza politica». Per la Cdl il voto di ieri non risolve i problemi del governo, come dice l’azzurra Isabella Bertolini: «Prodi è al capolinea, ora deve scendere». L’appoggio di Fi, per l’ex ministro della Difesa Antonio Martino non vuol dire approvazione della politica estera del governo. E il capogruppo al Senato Renato Schifani avverte che non si governa con i voti dell’opposizione o con maggioranze variabili. Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi, rievoca la favola di La Fontaine: «Sono come le cicale che cantano vittoria al caldo della Camera, ma adesso arriverà l’inverno del Senato».
La Lega si è astenuta a Montecitorio perché voleva potenziata la presenza italiana in Afghanista e annuncia che farà lo stesso a Palazzo Madama: «Non è un problema nostro salvare questa maggioranza. Siamo stati gli unici a chiedere le elezioni ai tempi della crisi.

Parlarne oggi è inutile e ipocrita» avverte Roberto Maroni. Quello che serve, più della minaccia di tornare alle urne che ricompatta l’Unione, per il centrista Rocco Buttiglione come per Casini, è un governo di solidarietà nazionale.

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