Cecotto: «Ce l’ho fatta io, figuriamoci Rossi»

«Al debutto in F1 andai a punti con un team fallito. Vincevo? Ero italiano. Perdevo? Ero venezuelano»

Benny Casadei Lucchi

Per Johnny il problema vero è July. «Ha solo un anno - dice - è bellissima, però vorrei che almeno lei giocasse con le bambole. Invece passa il tempo con le macchinine di suo fratello». Johnny Cecotto ha compiuto ieri cinquant’anni, ha tre figli, oltre alla piccola ci sono Jonathan Alberto, sei anni, che va in kart, e Johnny Amadeus, sedici, «che corre in Formula Bmw, è bravo, ora mi tocca seguirlo a tempo pieno. Da due anni gli faccio da meccanico, ingegnere, manager, gommista, com’è difficile dare consigli motoristici a un figlio...».
La sua carriera, quella di papà s’intende, in parte fortunata in parte sfortunata, torna prepotentemente d’attualità in queste settimane. Perché Johnny Cecotto, venezuelano di vistosissime origini italiane, «quando vincevo ero italiano, quando andavo così così scrivevano italo-venezuelano, quando perdevo ero solo sudamericano», è stato l’ultimo motociclista prima di Valentino Rossi a tentare, e con successo, il grande salto in F1. Era il 1983.
Due anni in F2, uno per apprendere, l’altro per diventare vice campione europeo, poi l’esordio nel grande Circus, poi due stagioni, poi, nel 1984, la carriera spezzata quando sembrava decollare. Ma in F1, ancor oggi, i grandi saggi come Ron Dennis, Frank Williams, Bernie Ecclestone e qualcuno anche alla Ferrari, ricordano perfettamente questo ragazzo corteggiato da tutti i top team perché al secondo Gp della vita era riuscito ad andare a punti e non con un missile, bensì con l’equivalente di una Minardi di oggi, era il 1983, si chiamava Theodore, accadde a Long Beach. Per rendere l’idea del team, quattro mesi dopo fallì. La stagione successiva Johnny passò alla Toleman accanto a Senna: «Cecotto fu l’unico compagno che mi mise davvero in difficoltà» rivelò anni dopo Ayrton.
Signor Cecotto, lei vinse nel ’75 il motomondiale 350, due anni dopo quello 750.
«E alla mia prima gara in campionato vinsi sia in 250 che in 350... Agostini non la prese bene. Ma per me fu la ribalta. A fine stagione ero campione del mondo proprio davanti a lui».
Paragonate a quelle di Rossi, che moto erano le sue?
«La 750 con cui centrai il titolo nel ’77 era come una Motogp. Però due tempi. E Valentino sa che cosa vuol dire visto che dice spesso di rimpiangere la potenza e la brutalità delle due tempi. All’epoca toccavamo già i 340 all’ora sui rettilinei di Daytona e Hockenheim».
A 24 anni lasciò le moto e aveva già in tasca due titoli mondiali.
«Sì, era il 1980, dovevo fare il passo a quell’età. Così iniziai a correre in F2. Valentino può farlo dalla porta principale, ma fu bello anche così. Alla seconda stagione ero vice campione europeo. Ho sempre saputo che sarei passato alle auto e come Rossi non ho mai avuto un vero background automobilistico. Seguivo mio padre pilota amatoriale».
Per cui non è così impossibile il passaggio come invece vogliono farlo sembrare in molti?
«Assolutamente no. Anzi, adesso ci sono molti aiuti in più anche nella messa a punto. Perché la vera differenza auto-moto è data dalla maggiore difficoltà nelle regolazioni».
Valentino fa test in moto e test in auto. I piloti di F1 dicono che è pericoloso, che saltando nello stesso anno da una moto a una F1 poi sbaglia le staccate e rischia di farsi male.
«Sciocchezze. Mi spiego: sono talmente diverse, auto e moto, che un buon pilota non può confondersi su quando e come iniziare a frenare. Anche se salta dall’una all’altra. Viene naturale a un motociclista».
Però i piloti, da Trulli ad Alonso, dicono che comunque a Rossi mancherebbero tutti gli anni in go kart e nelle formule minori.
«Non è vero. A Valentino mancherà solo l’esperienza nella messa a punto. Ma dato che i piloti di moto hanno molta più sensibilità, imparerà presto. L’altra cosa da apprendere è come si corre con meno spazio libero in pista. Ma anche questo si capisce in fretta. Il resto lo fa il talento. E ne ha da vendere».
Vedremo che cosa farà Valentino. Lei che cosa fece?
«Io al secondo Gp andai a punti con la Theodore, l’ultima delle F1».
E poi?
«Poi il team chiuse, e nel 1984 fui preso dalla Toleman, accanto ad Ayrton Senna. Lui firmò prima di me, per cui divenne prima guida. Provava tutto lui, aveva il motore a iniezione, io no. Solo una volta, a Donington, il team ci fece provare la stessa auto: e io fui più veloce. Era indiavolato il povero Ayrton. Non si capacitava».
In effetti lei viene ricordato come un fuoriclasse che non ebbe la possibilità di esprimersi.
«Quell’anno, a Brands Hatch, mi fracassai le gambe. Fu terribile. Dopo undici mesi tornai su una monoposto, ma non avevo più la forza per gestire pedale e freno con la potenza richiesta in F1. E pensare che prima dell’incidente ero stato contattato da Williams, McLaren, Brabham e soprattutto dalla Ferrari che mi seguiva con molta attenzione».
Lei fresco ex motociclista alla corte dei top team.
«Esatto. Ma dopo l’incidente, mi sono dovuto accontentare dei campionati turismo: ho sfiorato il titolo Dtm, il campionato turismo tedesco».


Perché sfiorato?
Ride amaro: «Accadde nel 1990 con la Bmw, perché nella gara decisiva un signore di nome Michael Schumacher, che partiva dalla tredicesima fila, percorse tutto il rettilineo del via quasi sull’erba per venirmi a speronare alla prima curva. Correva per la Mercedes che era in lotta con me e la Bmw per il titolo, il loro pilota di punta era Ludwig».
Schietto: Valentino fa bene a provarci?
«Fa benissimo. Se ce l’ho fatta io, ci riuscirà anche lui».

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