Cempella: «Per Alitalia la via italiana è possibile»

da Milano

Domenico Cempella resta, nella storia dell’Alitalia, l’unico manager che ha saputo ristrutturare la compagnia, risanarne i conti ed esprimere un vero progetto del quale il Paese è tuttora orfano. Quel progetto era centrato sulla fusione con Klm, in cui il capitale italiano sarebbe stato in maggioranza, e sul ruolo di Malpensa come grande hub, che era il presupposto per l’alleanza con gli olandesi. Le incertezze sul ruolo di Malpensa portarono alla rottura della partnership e alle dimissioni (nel 2000) dello stesso Cempella. Pochi numeri: nel 1996, quando questi fu nominato amministratore delegato, Alitalia perdeva 1.217 miliardi di lire; l’anno dopo l’utile fu di 438 miliardi. Tra il 1997 e il 2000, gli anni del «grande sogno», i profitti complessivi furono di 850 miliardi. Gli chiediamo: come vede la situazione attuale?
«È a un punto morto - risponde -. Air France si è ritirata, ma non escludo che sia tuttora alla finestra. Ma d’altra parte sono convinto che si possano trovare i capitali per una cordata italiana. Una cosa è comunque essenziale: chi investe deve puntare a un’azienda che guadagni, e non che perda. Per questo occorrono un piano credibile e competenze vere: prima il piano, poi i soldi. Alitalia è in coma, non bastano medici generici: occorrono degli specialisti».
Secondo lei è ancora risanabile?
«Credo di sì. Ha pur sempre il 49% del mercato, che è il presupposto essenziale per qualunque attività. Ma deve investire in appetibilità del prodotto da offrire, che è l’altro elemento essenziale, e darsi una rete adeguata».
Il tempo per queste cose c’è?
«Con i 300 milioni del prestito, è necessario trovare una soluzione al massimo dopo l’estate. Ma è importante far presto, da troppo tempo l’azienda è priva di una guida, con aerei a terra e troppe incertezze sul futuro. Un periodo di interventi massicci e pesanti è comunque innegabile».
Nel trasporto aereo, globale per definizione, ha senso parlare di italianità?
«L’importante non è l’italianità, ma lo sviluppo - non solo turistico - che le compagnie aeree producono per il proprio territorio. Air France non voleva acquistare Alitalia per farla crescere, ma per evitare che la comprasse qualcun altro, per drenare il suo traffico a favore di Parigi e di Amsterdam e per ottenere immediate economie di scala. Quello che occorre sono alleanze, integrazioni, non una svendita».
Secondo lei, che cosa si potrebbe fare?
«Va ripensata la rete di collegamenti, migliorato il prodotto: si ricorda quando la Fiat pensava solo alla finanza e al processo produttivo? Stava per fallire. In Alitalia è andata allo stesso modo: si è tagliato, tagliato, senza pensare al prodotto, che resta sempre centrale. Il fine di tutto dev’essere ricominciare a crescere e alimentare l’offerta».
Come?
«Con integrazioni: le alleanze commerciali sono troppo poco. Integrazioni su tutta l’attività o per settori».
Per esempio?
«Joint-venture sul Sud Est Asiatico o sul Nord America, dove mettere insieme ad altre compagnie costi, ricavi, strategie di offerta».
Alitalia da sola non può restare?
«No, non ne ha né la forza né le dimensioni».
Cosa pensa di Air One?
«Non ho strumenti di giudizio. Ma in linea di massima non credo al topo che mangia il gatto».
Avrebbe senso un’integrazione anche con altri vettori nazionali?
«Sì, certo, per fare massa critica e razionalizzare l’offerta. Anzi, Alitalia dovrebbe valorizzare meglio anche la controllata Volare».
E Malpensa? Che ruolo avrà?
«L’idea di un hub che potesse competere con Francoforte è morta. Ma un vettore italiano, l’Alitalia di oggi o di domani, non può prescindere dal mercato che su Malpensa converge, in un’ottica point-to-point, anche rivedendo la distribuzione di traffico con Linate».


L’hub è morto definitivamente?
«Per un hub occorrono una grande compagnia e un grande network sul quale costruire onde di traffico per alimentarlo. Il progetto Malpensa, quello vincente, è stato affossato soprattutto dalla crescita di Linate e degli altri aeroporti del Nord Italia, frutto delle incertezze della politica. Ormai è tardi per tornare indietro».

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