«Fra una cena con Pound e un Grand-Guignol, la mia stagione parigina»

Se ricordo bene, l’appartamento al 17 del Lungosenna Voltaire era composto da uno studio con un soffitto molto alto e una loggia che correva lungo uno dei muri. Io dormivo lì. Harry Dunham, fresco fresco da Princeton, aveva preso quell’alloggio e occupava la cameretta dabbasso. Eravamo nel mese di gennaio e al mattino faceva molto freddo. Dalla finestra della sala da bagno che dava sulla loggia contemplavo il disegno dei rami contro il cielo e i battelli che andavano e venivano sul fiume ai miei piedi. Era l’inverno dell’annata 1931-1932 ed erano poche le autovetture che passavano giù nella strada. Immagino che oggi esse siano più numerose.
A Marrakech, Harry aveva pensato che sarebbe stata una buona cosa condurre con noi in Francia Abdelkader, un giovane marocchino di 15 anni impiegato nell’albergo presso cui lui s’era sistemato e che intendeva istruire alla funzione di cameriere-factotum. Tale iniziativa si rivelò un po’ meno felice del previsto.
Nello studio doveva esserci un apparecchio per il riscaldamento, sarebbe stato altrimenti insostenibile, e mi ricordo gli andirivieni di Abdelkader lungo la stretta scalinata di servizio che conduceva in cantina, al fine di rifornirvisi di combustibile. Se si trattasse di legname o carbone, non ne ho la minima idea. Ma so che su quei gradini un giorno lui conobbe una persona della quale, entusiasta, tracciò un ritratto: «Come mia madre, te lo giuro». Mi presentò a lei successivamente, sempre lungo la stessa scalinata. Quella signora chiacchierona si chiamava Lucie Delarue-Mardrus. M’invitò a prendere una tazza di caffè a casa sua e mi presentò al dottor Mardrus. Costui era di gran lunga meno loquace di lei. Per quanto mi riguarda, io me ne rimasi tutto il tempo pressoché muto poiché non avevo letto la sua traduzione delle Mille e una Notte, e nemmeno ne ero a conoscenza. Dai Mardrus udii per la prima volta il nome di Isabelle Eberhardt, che la signora descrisse con vivo piacere. Le due donne s’erano incontrate in Algeria.
Il mese precedente avevo soggiornato in una stazione sciistica italiana. Non ero in perfetta salute e l’avevo scritto a Gertrude Stein che mi raccomandò con insistenza di fare ritorno a Parigi. Nel frattempo, però, qualcuno le riferì (all’epoca i pettegolezzi correvano sulle ali del vento per la rive gauche) che laggiù nelle Alpi ero in compagnia di una giovane ragazza francese. La ragazza e io eravamo semplicemente buoni amici ma Gertrude Stein ne trasse delle conclusioni personali. Lei disapprovava le relazioni tra i giovani che la interessavano e le persone del sesso opposto. Allorquando feci rientro a Parigi e pensai di recarmi in rue de Fleurus per fare visita alle signore Stein e Toklas, telefonai loro.
Ci fu una certa freddezza all’altro capo della linea.
«Dunque, siete tornato a Parigi», disse Gertrude Stein.
«Sì».
«Perché non ve ne andate in Messico? È proprio quello che vi ci vuole. Lì non durereste più di due giorni».
La nostra conversazione ebbe termine qui. Gertrude Stein era californiana, e per lei il Messico rappresentava proprio il luogo dal quale non si ritorna vivi. Non la rividi più fino all’estate successiva.
Bizzarramente, non riesco a ricordarmi dov’è che pranzassi. Non mi preoccupavo affatto della buona cucina; volevo mantenermi con una piccola somma di denaro il più a lungo possibile, senza avere a soffrire d’indigestione. C’era, credo, in rue Bonaparte, un ristorante assai buono e non troppo caro dove andavo spesso. \
Bernard Faÿ abitava in rue Saint-Guillame e occupava una cattedra di relazioni franco-americane. Non ho la minima nozione delle idee politiche ch’egli professava all’epoca, ma deve averle espresse quel tanto che basta perché lo imprigionassero per diversi anni, alla fine della Seconda Guerra mondiale. Da lui ho incontrato Virgil Thomson: abitava anche lui al numero 17 del Lungosenna Voltaire. Così è stato grazie a lui che potemmo sistemarci, Harry e io, nel nostro atelier. Inoltre Virgil s’incaricò di presentarmi a diverse persone che secondo lui era importante che io conoscessi, tali Marie-Louise Bousquet, Pavel Tchelitchev e Eugène Berman, che tutti chiamavano Génia. Un giorno, Virgil mi condusse a incontrare Max Jacob, strano piccolo personaggio dalla testa a forma d’uovo. Si trovava da lui Henri Sauguet. Io, però, non avevo mai letto un rigo di Max Jacob, né avevo mai ascoltato una sola nota della musica di Sauguet, di conseguenza quelle presentazioni non servirono a granché.
Due erano i posti che m’incantavano particolarmente: il Bal Nègre, in rue Blomet, e il Teatro del Grand-Guignol. Non avevo mai avuto occasione di veder danzare dei Neri, nonostante io fossi, com’è naturale che sia, fortemente impressionato dalla loro grazia e dalle loro doti di danzatori. Il repertorio del Grand-Guignol era necessariamente limitato, occorreva, al fine di evitare una scelta composta esclusivamente da pezzi già visti, esaminare con cura il programma. Spesso lo spettacolo era disturbato dalla presenza in sala di infermieri in camice bianco che arrivavano per portare via gli spettatori che si sentivano male. Non credevo molto all’autenticità di quelle crisi cardiache o di quegli attacchi epilettici. I lavori presentati non mi sembravano tanto raccapriccianti da poter provocare simili reazioni. Si asseriva, però, che quegli incidenti non erano affatto dei trucchi: il teatro attirava un pubblico d’invalidi e nevrotici. Trovavo la cosa molto divertente, compresa l’atmosfera di dramma in cui era avvolta l’uscita degli spettatori ipersensibili.
Ogni volta che uno dei miei conoscenti di passaggio a Parigi mi proponeva un pranzo sceglievo di andare al ristorante della Moschea, non tanto per l’eccellenza della sua cucina, ma più semplicemente perché le portate e l’ambiente mi ricordavano il Marocco (l’avevo lasciata da appena qualche mese ma sognavo continuamente di fare ritorno a Fès). Oggi, ripensandoci, mi sembra di ricordare che il couscous della Moschea non fosse poi tanto male. Era di sicuro migliore del couscous servito oggigiorno nei ristoranti in Marocco. Mi dicono che adesso, trascorso più di mezzo secolo, la qualità dei piatti della Moschea è via via calata, ma ciò non sorprende affatto visto come vanno le cose dappertutto.
Un giorno, presso alcuni amici a Montparnasse, venni presentato a Ezra Pound. Andammo, io e lui, a colazione nelle vicinanze. Era un uomo d’alta statura con una barba appena rossiccia. Mi ricordai di una sua poesia che avevo letto qualche anno prima in una piccola rivista; si trattava di una specie di diatriba contro gli anziani i quali, secondo Pound, per il bene della società avrebbero dovuto morire prima dell’età senile. Mostrai a mia madre quel passo così crudo, ella mi disse: «Mi sa che quest’uomo non conosce granché della vita». Più volte, nel corso di quella colazione, fui sul punto di domandare a Mr. Pound se avesse mantenuto la stessa opinione riguardo alla vecchiaia, ma mi astenni dal farlo all’idea che la domanda potesse imbarazzarlo. All’epoca dirigeva, assieme a Sam Putnam e Richard Thoma, una rivista letteraria dal titolo The New Review. Quello stesso pomeriggio aveva appuntamento con Putnam e mi propose di accompagnarlo. Nell’autobus, per tutto il tragitto fino a Fontenay-aux-Roses, rimanemmo in piedi sulla piattaforma. Ricordai che Gertrude Stein aveva stabilito che non avrebbe più ricevuto Pound. Era così poco attento e così maldestro, lei diceva, che se si avvicinava a un tavolo ne avrebbe rovesciato la lampada; se si sedeva, la sedia crollava sotto di lui. La sua presenza tra gli invitati le costava troppo e quindi lei gli impedì l’ingresso al 27 di rue de Fleurus. Le domandai se non pensava che lui soffrisse per questa esclusione. «Oh, no! Ha tanta altra gente a cui spiegare la vita». Lei lo aveva soprannominato il Grande Esplicatore, «se si ha bisogno di spiegazioni - aggiungeva - è perfetto».
A Parigi, quell’inverno, le mie attività letterarie si limitavano alla ricerca dei numeri mancanti nelle mie collezioni di riviste, le più disparate o moribonde. La cosa richiedeva tempo ed energia più di quel che si possa credere. Le pubblicazioni che m’interessavano maggiormente erano Le Minotaure, Bifur e Documents, giornale dal destino effimero, pubblicato da Carl Einstein. Non le si trovava nei negozi di libri usati dei lungofiumi ma presso le piccole librerie a prezzi d’occasione sparpagliate per tutta la città; di conseguenza, per le mie ricerche ero costretto a fare delle lunghe camminate. Del resto trovavo la cosa conveniente, poiché a Parigi niente mi piaceva di più che passeggiare per le vie poco frequentate, il cui mistero permaneva inesauribile ai miei occhi.
In particolar modo amavo esplorare i quartieri situati distanti dall’Opera, lontani da Place de la Concorde o dall’Arc du Triomphe, davvero troppo ufficiali per apparirmi interessanti. Nel grigiore di una giornata d’inverno, le modeste rue de Belleville o rue de Ménilmontant mi apparivano soffuse di una poesia infinitamente più grande. Misuravo ad ampi passi quelle strade, per delle ore e senza annoiarmi, scattando fotografie a quei punti in cui si accatastavano scale e botti (prestando attenzione a non includere persone nell’immagine), qualche volta smarrendomi, un po’ come in una medina marocchina. I piatti serviti nei ristoranti di quei quartieri non mi piacevano molto: ricordo la carne di cavallo, rossa e dolciastra, abitualmente accompagnata da spinaci che crocchiavano sotto i denti.
Un edificio «ufficiale» che mi affascinava, però, c’era: il Trocadéro, con la sua ampia rampa di scale che digrada verso la Senna. Sbaglio ad associarci il ricordo di Lautréamont? Senza alcun dubbio la costruzione era sufficientemente brutta da suscitare la sua ammirazione, con i suoi indimenticabili rinoceronti a grandezza naturale. Apparentemente, questi sono stati soppressi in occasione del ringiovanimento chirurgico praticato al complesso. Non riesco a non domandarmi cosa ne è stato di quei due enormi animali. Esistono ancora da qualche parte o sono stati distrutti? Mi pare che i francesi abbiano potuto farne colare un altro paio, identici, e piazzare le quattro bestie ai quattro angoli della Torre Eiffel, con cui avevano una certa aria di famiglia.
Per evitare l’accusa di nutrire un gusto deviato in materia di architettura dovrei dire che ammiravo il castello di Versailles. La superficie del paesaggio che si distendeva in lontananza serviva da antidoto a quel leggero senso di claustrofobia che alle volte provavo a Parigi. Ero certo di avere un’ammirazione praticamente universale per quel posto, tanto che un pomeriggio fui scandalizzato nel vedere quattro turisti inglesi, in piedi davanti alla larga facciata principale, con aria canzonatoria, e udire una delle donne pronunciare con un forte accento cockney: «Proprio una roba brutta!».
Una sera venni invitato da Tristan Tzara a cena. Era da qualche parte sopra Montmartre, forse rue Lepic. Aveva una moglie svedese molto bella, il suo salotto era pieno zeppo di sculture e maschere africane. Possedeva un magnifico gatto siamese. A dispetto delle loro reazioni, folli e imprevedibili (oppure potrebbe anche darsi che sia proprio per via di quelle) apprezzo particolarmente questi animali. Le pietanze mi parvero eccellenti, nonostante esse furono motivo di scuse da parte dei miei ospiti. Tzara mi spiegò che in cucina tenevano del personale provvisorio perché il loro cuoco abituale li aveva lasciati pochi giorni prima, molto agitato, dichiarando che non avrebbe più rimesso piede in casa Tzara. Tutta la faccenda era dovuta al gatto, che non era mai entrato in buoni rapporti con il cuoco. Forse questi aveva trascurato i suoi pasti. In ogni caso lui non lo voleva in cucina mentre lavorava e così lo scacciava col piede, insulto che l’animale, un maschio molto grande, considerava imperdonabile.
Il cuoco dormiva in una camera di servizio in fondo all’appartamento e chiudeva sempre la porta al momento di addormentarsi. Ma una sera non la trasse completamente e il gatto riuscì ad aprirla senza fare rumore. Dopo essersi assicurato che l’uomo dormisse, il gatto prese slancio, saltò, atterrò sulla gola del cuoco e prese a lacerarla con i possenti artigli delle sue zampe posteriori. Era evidente: l’animale era risoluto a sbarazzarsi del nemico. Dovettero portare il cuoco in ospedale, dal quale fece ritorno l’indomani mattina per rilasciare il suo ultimatum: se i suoi signori desideravano mantenerlo al loro servizio era necessario che si sbarazzassero seduta stante del gatto. Il cuoco non avrebbe rimesso piede nell’appartamento fin tanto che la cosa non venisse fatta. Gli Tzara si rifiutarono e il cuoco se ne andò, fulminante e minacciando di intentare causa ai coniugi. Chiesi come se la intendeva ora il gatto con il sostituto: «Ah - disse Tzara - ma è una donna! Le femmine non lo disturbano affatto». Il gatto era sistemato sopra una libreria, di fianco a una maschera africana. Da lì ci guardava mangiare. Ebbi un violento desiderio di avvicinarmi per accarezzargli la testa e grattargli la mascella, però mi tenni a buona distanza per tutta la serata.
Le pareti del nostro atelier al 17, quai Voltaire erano decorate da grandi disegni monocromi di Foujitai. Probabilmente appartenevano alla nostra padrona di casa, la signora Ovise, o magari furono abbandonati lì da un precedente locatario. Malgrado la presenza in taluni di quei quadri di gatti siamesi restituiti con brio, trovavo che quella serie non fosse degna del nostro studio, il quale necessitava secondo me di opere un po’ più d’impatto. Harry condivideva la mia opinione.
Vicino a noi, credo in rue de Seine, la Galleria Pierre presentava un’esposizione di «costruzioni» di Joan Miró. Erano realizzate con pezzi di legno, gesso, estremità di corde e ricordavano vagamente certe parti del Merzbau di Kurt Schwitters concepite, però, con lo scopo di piacere. Harry visitò la Gallerie Pierre e ne rivenne con tre di quei Miró. Rallegravano alquanto gli spazi e mi davano l’impressione di essere veramente nella Parigi del 1932. I Foujita suggerivano un’altra epoca: quella del decennio precedente (quando si ha vent’anni, un decennio sembra molto lungo). Riponemmo i Foujita dentro un armadio a muro.
Appena quindici giorni dopo, un pomeriggio, rientrai e trovai lo studio eccezionalmente spento. Mi furono sufficienti alcuni secondi per comprendere: i Foujita avevano riguadagnato i loro posti sui muri e i Miró erano spariti. La cameriera non era capace di fare una cosa simile: non potevano essere stati che la portinaia o la stessa signora Ovise. Mi precipitai di sotto per parlare alla custode. Inizialmente lei non capì (o fece finta di non capire) il motivo della mia agitazione. Parlavo dei Miró spariti come di «quadri». In un secondo tempo comprese ed esclamò: «Volete dire, signore, quei vecchi pezzi di legno che qualcuno ha appeso al muro? Li ho gettati via. Pensavo che lei, signore, sarebbe stato felice di sbarazzarsene».


Cominciammo un0ispezione minuziosa; le costruzioni, che io continuavo a qualificare delle opere d’arte, con grande perplessità della portinaia, furono rinvenute presso un angolo di strada, in mezzo a una catasta di fasciole. Erano ridotte piuttosto male e fu necessario riportarle alla Galleria Pierre per delle riparazioni. Alla fine, fu lo stesso Miró a riassemblarle.

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