Nei mesi in cui ricorrono i 150 anni dell'unità d'Italia esce in libreria un testo di grande valore storico-sociale e musicale che racconta e rievoca il secolo e mezzo di vita dello Stivale attraverso e canzoni e le opere che ne hanno seguito o accompagnato gli sviluppi. «La musica italiana» (Donzelli editore, pp. 525, 33 euro) è una sorta di storia d'Italia vista, o meglio ascoltata con l'orecchio dello storico che ha fatto della musica il suo strumento di indagine. Raccontare la formazione, la nascita e l'evolversi di una nazione attraverso il canto significa inevitabilmente legare ogni singola epoca a un preciso modulo musicale. Si parte così dal melodramma che ha scandito le prime fasi dell'unificazione, la realizzazione di un inno che ancora oggi fa discutere e pone l'interrogativo se sia o non sia quello che maggiormente riflette la nostra storia e la nostra identità. Il canto campestre è quello invece che ha caratterizzato la fin de siècle tra la realtà di un'Italia contadina e ruspante che si contrapponeva al dramma infinito della diaspora italiana nel mondo, quando il fenomeno dell'emigrazione spingeva molti connazionali a cercare fortuna spesso in altri continenti sfidando la sorte e le difficoltà, pagando un prezzo altissimo: la malinconia.
Operette, balli e canzoni in stile belle epoque hanno improntato l'inizio del Novecento tra cafè chantant e avanguardie, mentre il Ventennio ha fatto parlare di sé, dal punto di vista musicale, per l'uso preponderante della radio come strumento di propaganda in aggiunta alle canzoni che si lasciavano interpretare come piccoli inni di esigue caste o più semplicemente di gruppi politici.
Il dopoguerra è il periodo della musica leggera e del festival. Di «Volare» e Nilla Pizzi, degli acuti di Claudio Villa e della voce di Nicola Arigliano. Del trio Lescano e Aurelio Fierro. Delle prime balere e dei night club. Della rivista e del cabaret. Una nazione che rialza la testa, si sveglia. E canta la sua felicità. Solo negli anni Sessanta arriveranno le prime riflessioni. E i cantautori. L'amore, in primis. Quello che Battisti scrive e canta. Quello che Mina scandisce nelle orecchie di un'intera nazione. E la guasconeria del nuovo modello giovanile, quell'Adriano Celentano che offre di sé un'immagine lontana dagli stereotipi in voga fino ad allora. Per non pensare alla Vanoni e a Milva arrivando fino alle frontiere più banali del Carosello o delle colonne sonore dei film con Ennio Morricone e Nino Rota alfieri della «generazione video».
E si arriva ai giorni nostri. Quelli di Pavarotti e della Pausini. Di Bocelli e di Ramazzotti. Ligabue e Vasco Rossi. È la musica digitale e globale, la nuova frontiera di un secolo nuovo che coincide con un millennio nuovo. C'è tutto in questa nazione che è nata, che guarda avanti e si volge indietro, che ascolta le note in arrivo dagli Stati uniti e cerca una propria versione di fenomeni nuovi.
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