di Forse non occorre chiudere i centri sociali: basterebbe pensare che un teppista con la patente ritirata probabilmente a Roma non ci arrivava. Man mano che si scoprono le provenienze dei nuovi barbari che hanno devastato Roma e che vengono a cadere i soliti facili complottismi legati agli «infiltrati» e agli «agenti segreti provocatori» ecco che la realtà risulta, come spesso succede, molto più semplice di come si tenta di farla e si ritorna al solito problema di quelle efficienti scuole di illegalità dei «centri di disagio». Ieri su queste pagine il direttore Sallusti ne proponeva la chiusura, reazione emotivamente comprensibile ma che presta il fianco ad unobiezione legata ad ogni tipo di proibizionismo: le leggi le seguono gli onesti, se invece vietiamo qualcosa a chi già delle leggi se ne fa un baffo è, nella sua ottica peculiare, la stessa cosa che appuntargli una medaglia sul petto. È vietato anche dare fuoco alle macchine e alle camionette, tirare sampietrini, profanare simboli religiosi, aggredire gli agenti e gli ottantenni, anche se si chiamano Pannella, eppure non sembra che la cosa li abbia fermati.
La criminalità si nutre del proibizionismo, le riunioni sul prato diventano anche più affascinanti se costrette da un divieto ad essere tenute illegalmente in uno scantinato e nelle cantine poi rischiano di nascere idee ancora più pericolose. Però rievocare il proibizionismo potrebbe esserci utile per affrontare il problema da un altro punto di vista: Al Capone infatti, simbolo di quellepoca, non fu arrestato per i suoi crimini più efferati (dai quali si difendeva con lomertà e con il timore che incuteva) bensì venne rinviato a giudizio per una semplice evasione fiscale.
Ebbene: dato che i maxiprocessi sugli scontri di piazza si rivelano ormai di desolante inutilità o peggio, a volte finiscono con il mettere sul banco degli imputati le forze dellordine, visto che i teppisti vengono spesso e volentieri scarcerati al volo preferendo evidentemente riservare la carcerazione preventiva per qualche vip mediaticamente più redditizio, ebbene, potrebbe essere unidea, invece di salire di livello nello scontro, provare a scendere e concentrarsi sul rispetto della piccola legalità di base.
Ci si riempie la bocca di «legge uguale per tutti», di rispetto delle regole e poi si fornisce una plastica impressione di «zone franche», dove tutto è concesso e dove delle persone possono allegramente progettare guerriglie a tavolino bevendo, fumando e sentendosi un bel concerto? Eh, no, se non li si vuole arrestare per le devastazioni allora proviamo a cominciare con gli scontrini e la Siae. Il cittadino onesto può pensare che tanto i violenti sono tutti a piede libero, dal borseggiatore nelle stazioni al picchiatore da stadio e che quindi quelli del 15 Ottobre non facciano differenza, ma se oltre a concentrarci sulla violenza guardassimo anche ciò che ci sta attorno, passerebbe un messaggio positivo, cioè che lo Stato si mostra intransigente anche per i piccoli doveri di tutti i giorni, a partire da quelle incombenze che si accatastano ogni mattina sulla schiena di chi tenta di fare impresa o commercio onestamente.
Lidea di mandare un battaglione di agenti a chiedere che il centro sociale mostri il registratore di cassa può far ridere, tuttavia se vogliamo cominciare ad insegnare che la legge è, davvero, uguale per tutti allora il commerciante che si sveglia allalba deve sapere che non è solo lui ad avere controlli, ma che la stessa cosa accade ovunque, a partire dai centri sociali. Non vietiamo nulla quindi, che di divieti ce ne sono già fin troppi, però mandiamo ogni mattina gli agenti a controllare che tutto sia in regola alla virgola. Diventerà molto più difficile per i paladini della legalità a giorni alterni argomentare contro lo stato repressore del disagio giovanile.
Utopia? Può darsi, ma da qualche parte bisogna provare, visto che la tolleranza dà questi risultati.
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