I politici devono buttare l'anello del potere, i cittadini ignorare lo Stato

Se le idee hanno conseguenze, in che modo la cultura liberale può mettersi davvero al servizio della società e favorire un processo di autentica trasformazione?

I politici devono buttare l'anello del potere, i cittadini ignorare lo Stato

Se le idee hanno conseguenze (come viene spesso ricordato, citando una celebre frase di Richard Weaver), in che modo la cultura liberale può mettersi davvero al servizio della società e favorire un processo di autentica trasformazione? Come si può fare in modo che i diritti vengano meglio protetti e rispettati, che la società possa esprimersi, che le comunità e le chiese siano libere, che l'iniziativa imprenditoriale non trovi intralci? Ogni prognosi muove da una diagnosi, e se comprendiamo che la grave crisi delle società occidentali trae origine dal trionfo del potere sovrano, una speranza di rinascita può venire soltanto dalla riaffermazione di alcuni diritti cruciali: la proprietà privata, il diritto di associarsi e dissociarsi, la libertà d'impresa. È urgente che le ragioni della libertà s'impongano sull'egualitarismo di matrice socialista che ha dominato la mente e il cuore degli intellettuali europei tra Otto e Novecento. Ma come?

Chi conosce anche solo in modo superficiale i nostri ordini politici ed economici sa bene che la sfida principale consiste nel riuscire a contrastare spesa pubblica, tassazione e debito di Stato. Sarebbe opportuno che i poteri pubblici si ritraessero e la creatività sociale potesse rinascere negli spazi lasciati liberi da tecnocrati e governanti. Molto dipende dai politici? Certo. È però evidente che nella classe governante è forte la volontà di accrescere il potere statale e che per tale ragione è irrealistico chiedere a qualcuno di tagliare il ramo su cui è seduto.

Un impegno di natura politica, allora, nella migliore delle ipotesi non basta. D'altro canto, la situazione sarebbe assai migliore se le vittime fossero consapevoli di quanto avviene e se esprimessero insoddisfazione per il fatto che ormai la nostra esistenza (in ambiti come l'educazione, la sanità, la previdenza ecc.) è ormai sotto il controllo dei poteri pubblici. Qualcuno in Italia è forse sceso in piazza per protestare contro il Pnrr? Esiste anche solo una parte dell'opinione pubblica che voglia davvero contrastare le politiche volte a elargire favori? Qualche volta è lecito dubitarne, dato che la società sembra ormai disposta a subire ogni tipo di sopruso: come s'è ben visto durante la pandemia.

Il processo di statizzazione della società è ormai giunto a un livello tale che l'intera società è in larga misura parastatale e per questo non è neppure facile immaginare una qualche controffensiva. Lo schema tradizionale su cui si reggeva la logica liberale, che opponeva la libertà del mercato alla violenza dello Stato, è in difficoltà a seguito di questa espansione dell'interventismo che sta facendo di ognuno di noi un funzionario statale a tempo pieno: dall'alba al tramonto. Oltre al controllo delle risorse ottenuto grazie a tassazione e spesa pubblica, il potere amministra la nostra vita nei più piccoli dettagli grazie alla legislazione: e così a Parigi si può vivere in abitazioni di 9 metri quadri mentre a Milano ce ne vogliono almeno 28 (e naturalmente questo non è possibile se l'immobile è accatastato come negozio oppure ufficio, e non come abitazione).

Anche qui, bisogna prendere atto che i complici del potere sono ovunque. Gli albergatori cospirano per avere norme che ostacolino quanti affittano una propria stanza usando Airbnb, mentre i tassisti fanno la guerra a Uber e i notai difendono con le unghie le loro rendite corporative. Le grandi imprese propagandano a ogni piè sospinto le banalità del politicamente corretto, persuasi che mostrarsi bene allineati ai potenti dei media e della politica sia pagante.

Ne risulta che la folle volontà di pianificare tutto un'ambizione che domina intellettuali, urbanisti, economisti, medici... s'è sposata con l'opportunismo dei nuovi capi d'azienda: sempre meno imprenditori e sempre più disposti a usare lo Stato per ottenere rendite di posizione. Il crollo delle ideologie totalitarie non ha lasciato il campo a una visione della società che rigetti il ricorso alla coercizione, dato che domina l'utilitarismo di soggetti disposti a tutto pur di perseguire i loro miserabili risultati.

Ecco perché la cultura è importante. È infatti necessario che emergano attitudini diverse e controcorrente etiche in primo luogo, ma anche estetiche che aiutino a comprendere che è in gioco la dignità stessa della vita. Un'esistenza amministrata non può essere bella, né degna di essere vissuta; e se non saremo liberi di scegliere e decidere, nulla di quello che faremo avrà significato. È urgente insomma che quanti vogliono difendere i loro principi, la loro fede, i loro valori e la loro identità (personale e/o comunitaria) non soltanto imparino a resistere, ma oltre a ciò s'impegnino per costruire luoghi in cui qualche senso sia preservato e le persone tornino a convivere fuori dalle logiche imposte dall'alto.

In uno scritto di qualche decennio fa, Sergio Ricossa raccontava come nella società italiana l'intera esistenza potesse delinearsi da mattina a sera utilizzando servizi e usufruendo di beni che erano prodotti dal settore pubblico. L'Italia dei panettoni statali e del monopolio della telefonia (la vecchia Sip) non è però scomparsa, ma ha solo cambiato pelle. Qualche innamorato della libertà continua a sognare che arrivino uomini politici disposti a buttare l'anello del potere: per usare l'immagine di uno scrittore acutissimo come J.R.R. Tolkien. Nell'illusione che il dominio si neghi da sé c'è però davvero troppa ingenuità, e se certo non bisogna smettere di suggerire ai governanti di detassare, liberalizzare, privatizzare e sburocratizzare, al tempo stesso è cruciale che ognuno s'impegni in prima persona per affrancare se stesso e il proprio mondo: costruendo percorsi alternativi.

Un testo formidabile di Herbert Spencer s'intitola Il

diritto di ignorare lo Stato. Il grande pensatore libertario aveva ragione, ma oggi dobbiamo comprendere come ignorare lo Stato e le sue dinamiche coercitive sia ormai molto più che un diritto: è ormai diventato un dovere.

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