Cartoline di un’Italia che cambia. Che si sposta a destra. Che si tinge d’azzurro e di verde. È una rivoluzione silenziosa, cominciata nel 2008 e terminata ieri con la chiusura delle urne. I governatori della coalizione berlusconiana amministrano ora la maggioranza assoluta degli italiani. A spanne, circa 42 milioni di nostri connazionali sono adesso guidati da presidenti di centrodestra, contro i quasi 18 milioni di abitanti «sudditi» del centrosinistra. È un dato suggestivo che indica la trasformazione profonda del Paese, regione per regione, capoluogo per capoluogo, dalle Alpi alla Sicilia. È l’Italia a trazione locale che ha cambiato pelle, ha rottamato consolidate tradizioni e mandato all’aria antichi sistemi di potere e sottopotere, oliati da decenni. È la voglia di nuovo che modifica un tassello alla volta l’Italia dei 21 capoluoghi.
All’inizio di questa tornata la bandiera del centrodestra sventolava solo a Milano e Venezia. Per carità, la Lombardia ha quasi 10 milioni di abitanti sui 60 dell’Italia (Dati Istat 2009), e produce da sola più di un quinto della ricchezza del Paese, e il Veneto ha quasi 5 milioni e il 10 per cento del Pil, ma undici regioni sulle tredici chiamate al voto stavano dall’altra parte. In realtà, la mutazione era già cominciata. Nel 2008 il centrodestra aveva sfrattato Riccardo Illy e espugnato il Friuli-Venezia Giulia, abitato da 1 milione e 200mila persone, e l’Abruzzo, con una popolazione di 1,3 milioni, dopo l’arresto del precedente governatore Ottaviano Del Turco. Nello stesso anno, la Sicilia, granaio storico del centrodestra, non aveva tradito e si era affidata a Raffaele Lombardo. L’anno scorso era cambiato anche la geografia politica della Sardegna: Ugo Cappellacci aveva mandato a casa Renato Soru, il profeta della new economy ancorato alla vecchia politica. Così 1 milione e settecentomila sardi avevano dato la corona al governatore azzurro.
Ora, il cambiamento si veste con numeri definitivi, cifre imponenti che danno lo spessore di un’Italia che non è più quella di prima. E dove chi governa a Roma comanda anche a Milano, Venezia, Napoli, Palermo. Passano al centrodestra quattro regioni cardine come il Piemonte, con una dote di 4,5 milioni di abitanti e l’8 per cento del Pil, la Campania, circa 5,8 milioni, il Lazio, che vale 5,6 milioni, e infine la Calabria, con i suoi 2 milioni. Siamo dunque davanti ad un trasloco di massa, una migrazione senza precedenti, un bye bye a pezzi interi della classe dirigente uscente. Quasi diciotto milioni di italiani si consegnano a livello locale a presidenti allineati con il Governo di Berlusconi. E offrono ai governatori le chiavi dell’economia, se si pensa che solo l’asse Torino-Milano-Venezia ha in cassaforte il 40 per cento del Pil.
È la maggioranza, la maggioranza assoluta. Dieci regioni, conteggiando anche il piccolo Molise, detto in soldoni 42 milioni di persone contro i quasi 18 dell’opposizione su un totale di circa sessanta. Se vogliamo giocare con un altro calcolo, possiamo dire che undici regioni sono amministrate dal centrodestra, nove (sette più le due province autonome di Trento e Bolzano) fanno riferimento al centrosinistra, la piccolissima Valle d’Aosta è guidata dagli autonomisti e fa storia a sé.
È una vittoria sorprendente, ancora di più per almeno due ragioni. Storicamente, l’Italia delle piccole capitali è sempre stata orientata a sinistra, è sempre stata più rossa che bianca, più progressista che moderata e questa prevalenza traspare ancora nell’Italia centrale, nella ridotta appenninica fra Bologna, Firenze e Perugia, dove la catena di comando è ancora quella impiantata dal Pci nel 1945. Non solo. Il dato politico stupisce perché l’avanzata del centrodestra arriva dopo un interminabile e sfibrante anno di spine per il premier. Dalla fine di aprile del 2009 e dall’esplosione del caso Noemi, per il capo del governo è stato un interminabile susseguirsi di inchieste, scandali, storie di escort, senza contare gli attacchi di Fini e gli incredibili pastrocchi al momento di presentare le liste nel Lazio. Si profilava il rischio di una grave sconfitta e, al solito, un battaglione di esperti tornava a vaticinare, come tante altre volte, il tramonto imminente del berlusconismo e il sipario su un’epoca. Non è andata così. Il day after è rinviato per l’ennesima volta e ormai si è perso il conto delle uscite di scena del Cavaliere, puntualmente annunciate e altrettanto puntualmente sfumate. Si realizza, invece, il desiderio che il Cavaliere aveva consegnato ai microfoni di Sky Tg24: «Ogni regione in più sarà un successo, ma la vera vittoria sarebbe che la maggioranza dei cittadini fosse amministrata da noi». Previsione azzeccata.
Le Noemi e le D’Addario, col corollario di centinaia di articoli in tutte le lingue del mondo, non sono bastate a invertire il trend e nemmeno l’inchiesta di Bari, che peraltro ha poi virato verso il centrosinistra, e neppure il processo Mills e nemmeno i guai di Bertolaso, tirato giù di peso dal piedistallo di eroe, e neanche l’esplosione, imbarazzante, del caso Di Girolamo, primo senatore abusivo nella storia repubblicana. E nemmeno la crisi economica, che ha morso in profondità anche se meno rispetto ad altri Paesi, ha convinto la maggioranza degli italiani a voltare le spalle al premier. Per mesi, anzi per un anno intero, si è parlato e sparlato sempre e solo del Cavaliere, della sua famiglia, dei suoi figli e di sua moglie, delle sue telefonate, delle sue prestazioni a letto e delle sue sfuriate contro Annozero e Michele Santoro. Le elezioni regionali sono diventate l’occasione per tentare l’assalto a Palazzo Chigi e dare la spallata finale al quindicennio berlusconiano. Certo, il Pdl arretra rispetto alle europee e scende sotto la soglia del 30 per cento, ma la Lega, partner di Governo, avanza e anzi raddoppia sul dato delle regionali del 2005. E poi, per avere un quadro più realistico occorrerebbe conteggiare anche quei voti usciti dal perimetro del Pdl ma confluiti nelle molte liste targate con il nome di questo o quel candidato presidente, da Scopelliti e Biasotti.
Si è discusso poco, anzi zero, di programmi, di territorio, di servizi. L’Italia ha vissuto con i nervi a fior di pelle un referendum pro o contro il Cavaliere. Si è divisa, si è spaccata, si è insultata in manifestazioni di piazza seguite da contromanifestazioni con code polemiche sulle misure delle piazze.
Alla fine il Cavaliere è stato confermato, così come il Governatore della Lombardia Roberto Formigoni, che ha fatto poker e si avvia a raggiungere i vent’anni in vetta al Pirellone.
La vittoria al fotofinish della Polverini nella capitale, a dispetto del “tentato“ suicidio delle liste, consacra anche nelle cifre la nuova maggioranza: le 11 bandiere azzurre contro le 9 rosse. L’opposizione è relegata a minoranza anche nel circuito locale. La geografia politica dell’Italia è cambiata.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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