Miriam DAmbrosio
da Milano
Piccole crudeltà e frustrazioni accumulate nell'arco di trent'anni di lavoro assieme. Un rapporto di amore e odio, di dipendenza reciproca e negata messo in scena da Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina ne Il comico e la spalla, testo di Vincenzo Cerami, scritto su misura per animali da palcoscenico come i due attori siciliani, al Teatro Filodrammatici di Milano per la regia di Jean Claude Penchenat. Nel primo atto Alfio e Carmelo (Tuccio e Pippo) si confrontano ricordando vecchie glorie e comuni amori, battute che hanno funzionato sempre e li hanno resi famosi nei «teatri di tutta Italia da Busto Arsizio a Canicattì», come dice Carmelo. Tutta la prima parte è una gara di bravura tra i due, tra rispetto rigoroso dei passaggi scritti dall'autore e scatto dell'improvvisazione. Protagonisti assoluti, nessuno dei due si lascia spiazzare dai «fuori programma» dell'altro. Ed emerge l'egocentrismo del comico (Musumeci) e l'arte frustrata della spalla (Pattavina), colui che porge la battuta permettendo all'altro di inventare, giocare. La coppia comica è simbiotica e l'uno non ha ruolo inferiore all'altro, ma Alfio è più cinico e sicuro, Carmelo fragile. L'unico modo per porre fine al dolore di trent'anni d'ombra è avvelenare il compare. Ucciderlo nella mente, sopprimerlo virtualmente per riuscire a vivere. Compiuto l'omicidio desiderato, il sipario si chiude su questa prima parte, la migliore.
Nella seconda il rapporto tra i due si disperde. L'incantevole concentrazione da partita di ping pong si spezza. La scena cambia, si passa dal salotto della casa di Carmelo all'ingresso di una pensione gestita da donna Marta (Anna Malvica). Si assiste a un ribaltamento di ruolo tra gli attori: il cinismo di Alfio il sornione (che qui ha nome Orazio) lascia spazio a umiliazioni subite, e la fragilità dell'altro (che ora si chiama Ernesto) diventa distante spavalderia.
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