Da queste parti si ha una certa allergia per le classifiche internazionali. L’Italia risulta, incredibilmente, sempre agli ultimi posti al mondo in qualsiasi lista si scelga di compulsare. Eppure l’Italia continua a produrre una ricchezza (i dati sono del 2007 e sono espressi in dollari) di 2105 miliardi. Poco meno di Francia e Gran Bretagna e più del Canada. Le nostre imprese esportano in tutto il mondo ed in alcuni campi eccellono. I manager italiani sono sparsi in giro per il pianeta alla guida di grandi multinazionali. Ieri il rapporto realizzato da Business international su dati dell’Economist ha posizionato l’Italia al 40simo posto nella classifica della competitività mondiale: peggio di tutti in Europa, Grecia esclusa, e superati da Bangkok.
Negli ultimi venti anni, inoltre, la nostra crescita economica si è fermata rispetto al resto del mondo occidentale. Occorre dare, a nostro avviso, una giusta collocazione a indagini di questo tipo. Vi è una fotografia che spiega egregiamente le nostre contraddizioni: mentre l’Economist certifica il sorpasso competitivo della Thailandia e il rallentamento economico coinvolge il mondo intero, Guglielmo Epifani, rappresentante del nostro più importante sindacato, non trova di meglio da fare se non scioperare. Contro la crisi. L’Italia è come divisa in due paesi: una parte produttiva, che dopo l’adozione della moneta unica si confronta con il resto del pianeta. Soffre e combatte per affermare ogni istante la propria ragione di vita. Ed una parte protetta, che sopravvive solo grazie all’esistenza della prima, e che è tutelata da quel topos ideologico che è l’interesse generale. Ormai ridotto a poco più di un fantoccio grazie al quale si giustifica una sorta di scudo dalla concorrenza.
La tradizionale distinzione nord-sud è stata superata da una più sottile linea di demarcazione che potremmo raffigurare con la dicotomia euro-lira. L’Economist ha rilevato come il nostro regime fiscale sia il peggiore d’Europa, così come la nostra ragnatela di infrastrutture. Il Paese perde in competitività non per le sue imprese, ma per il suo scheletro che non si è mai adeguato alla competizione forzatamente imposta dal nostro mercato unico. Le imprese e i propri dipendenti sono costretti a vendere a prezzi compressi dalla competizione internazionale, sia sul mercato domestico sia su quello internazionale. Ma nello stesso tempo le aziende debbono usare ferrovie e strade italiane, pagare imposte centrali, utilizzare tribunali locali e rapportarsi con la burocrazia domestica.
Nei momenti di crisi però il gioco si rompe. Quel patto implicito per il quale l’impresa privata e i suoi dipendenti supportano l’apparato pubblicistico si incrina quando la crisi morde, indipendentemente dalle capacità di resistenza dei singoli. La tutela dell’operaio metalmeccanico, l’assenza di prospettiva per il contratto a termine, la chiusura del piccolo esercizio commerciale rischia di generare una rottura sociale con l’Italia assistita.
Il paradosso, evidenziato dall’Economist, è che in un momento di crisi il lavoratore e l’impresa più soggetta alla competizione rischiano di non avere alcuna tutela. Al contrario dell’impresa collegata alla politica o alla burocrazia che riesce a difendere il suo spazio anticompetitivo.
Per fare un esempio di questi giorni: dal punto di vista generale non vi è alcun motivo economico ed etico per il quale lo Stato debba tutelare con maggiore attenzione il dipendente Alitalia dal licenziato ad nutum della piccola impresa artigiana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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