Cultura e Spettacoli

Che catastrofe il progresso Benjamin marxista eretico

Ebreo, comunista, omosessuale, drogato, suicida. Manca solo negro per completare la rozza tipologia del Nemico Assoluto secondo lo stereotipo infame. Walter Benjamin quei tratti li ebbe tutti. Alcuni sono irrilevanti ai fini di un giudizio sulla sua opera e la sua figura, come ebreo e omosessuale; gli altri sono frutto di scelte infelici, a giudizio di chi scrive, ma non riescono a scalfire l’attenzione verso i suoi pensieri e la sua scrittura.
C’è chi vorrebbe stracciare «la santificazione biografica di Benjamin» che occulta i suoi tratti polemici, lo rende inoffensivo e accentua il suo lato mistico-letterario, e ricondurlo all’impegno politico. Massimo Palma e Gabriele Pedullà, che hanno curato la pubblicazione degli Scritti politici di Benjamin (usciti ora da Editori Internazionali Riuniti, pagg. 380, euro 26), vogliono infatti «ripoliticizzare Benjamin» e considerarlo come «scrittore politico». Vogliono cioè restituirlo al marxismo, a Lenin, alle sue pagine più infelici sulla violenza, la dittatura, la militanza di sinistra. Pensano che la stessa cosa sia accaduta in Italia con Pasolini, decomunistizzato, devitalizzato e santificato come mistico antimoderno.
Offrono allo scopo una selezione dei suoi scritti più politici, impropriamente presentati come «la prima volta»; si tratta invece di testi noti e anche più volte tradotti, che per la prima volta vengono antologizzati e assemblati come scritti politici. In realtà è proprio il lato politico che ci pare il più caduco di Benjamin. E non lo dico per accodarmi alla cerimoniosa vulgata che scorre devota tra l’Angelus Novus e l’omino gobbo, tra l’aura e il flâneur, l’infanzia berlinese e il passeggio parigino; che cita di lui «il sex-appeal dell’inorganico» e «l’ozio creativo». Né lo dico per assecondare la tesi inversa che fece capolino qualche anno fa sul New York Times: secondo Stephen Schwartz, Stalin avrebbe ordinato l’assassinio del filosofo che aveva criticato l’Urss dopo il patto con Hitler; e citava a supporto di questa tesi un misterioso suo testo scomparso insieme a due lettere, la sua amicizia con Arthur Koestler che poi denunciò gli orrori del comunismo e una critica di Benjamin ai leader comunisti europei servili verso il Cremlino. Una tesi storicamente intrigante, ma che nulla aggiunge o toglie al pensiero di Benjamin. È acuta la sua interpretazione del fascismo come estetizzazione della politica a cui oppone il comunismo come politicizzazione dell’arte: ma da questa lettura esce meglio il fascismo che assoggetta la politica all’arte rispetto al comunismo che asserve l’arte alla politica.
Ma le cose migliori Benjamin le scrisse fuori dalla militanza. È curioso semmai ricordare, ai margini del suo viaggio nel comunismo, il suo amore frustrato per Asja Lacis, come fu Lou Salomè per Nietzsche; anch’essa russa, conosciuta a Capri, inseguita da Benjamin a Mosca e poi finita per dieci anni nell’Arcipelago Gulag.
Al di là della passione politica, Benjamin resta uno dei più grandi testimoni del Novecento, un sismografo acuto della modernità al collasso. Non riesce a separare il progresso dalla catastrofe e il piano storico-politico dal piano mistico-escatologico. I suoi pensieri sono penetranti, a tratti folgoranti, quando si libera dal letto di Procuste della sua ideologia e della sua militanza. Il miglior pensiero di Benjamin, quando non è impolitico, è metapolitico. Tocca i paesaggi dell’anima e l’anima dei paesaggi, da Berlino a Parigi, da Mosca a Napoli, su cui scrive pagine smaglianti; scandaglia l’infanzia, l’amore, la solitudine, la magia degli oggetti e gli stati d’animo; si accompagna agli autori che più acutamente indagarono la condizione umana nella modernità, da Baudelaire a Proust, da Kraus a Kafka e a Goethe, sfiorando Nietzsche e Dostoevskij; affronta l’arte e la filosofia sull’orlo dell’abisso, costeggia la metafisica e la teologia, si immerge nella musica e nel cinema, nella bibliofilia e perfino nelle case d’asta. Per non dire degli innumerevoli passi in cui il marxista leninista Benjamin si lascia sorprendere con civetteria intellettuale in piena intelligenza col nemico, si chiami Carl Schmitt o Donoso Cortés, Charles Péguy o Stefan George. E come alcuni odiati nemici e aristocratici reazionari - per esempio Gottfried Benn ed Ernst Jünger - racconta le sue esperienze di droga, i suoi avvicinamenti ed ebbrezze con l’oppio e l’hascisch.
Ebbe ragione Hannah Arendt a ritenere che Benjamin sia morto della stessa imperizia e inattitudine alla vita che egli aveva descritto in Proust, «inesperto del mondo». Che poi combacia con l’osservazione di Theodor Adorno circa il suo perdurante tratto infantile e la sua «puerile diplomazia». Benjamin stesso si descriveva in una lettera a Gershom Scholem come un quarantenne spiantato senz’arte né parte. Ma se è per questo si definiva già da studente «disperatamente fuori posto» anche tra i filosofi di professione, in una lettera a Carla Seligson; lui con la sua «filosofia narrativa», come l’avrebbe definita Schelling. Il suo disagio di vivere e di pensare, sempre fuori posto, fuori tempo, in solitudine. Del resto, il marxista leninista Benjamin - come testimonia il suo amico Scholem - evocava incessantemente la tradizione, la teologia, l’ordine spirituale e riteneva Dio reale.
In un doppio appunto da Ibiza, Benjamin scrive: «L’angelo somiglia a tutto ciò da cui sono stato costretto a separarmi». Come l’angelo, Benjamin ricerca «l’estasi della novità, del non ancora vissuto», ma poi vagheggia «la beatitudine della ripetizione, del già vissuto». Anche lui come l’angelo «non ha speranza di novità per altra via che non sia quella del ritorno».

In quella spirale, tra l’attesa del nuovo e il ritorno all’origine, restarono impigliate le ali dell’Angelo e i pensieri di Benjamin.

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