Sfortunato quel popolo di ex terroristi che ha bisogno di eroi. Sfortunato e sciagurato perché licona rivoluzionaria presa in prestito dagli esuli sudamericani è un guerrigliero calabrese che dopo aver dato la vita per combattere il regime dei militari brasiliani è finito al centro di una squallida querelle burocratica che non fa onore al mondo che ruota attorno ai rifugiati (che ne strumentalizza il ricordo) e al Paese per cui è morto (che da anni non restituisce le spoglie alla famiglia). La storia del Che Guevara cosentino, Libero Giancarlo Castiglia, detto Joca, rebelde d'esportazione, è quella di un desaparecido le cui tracce si sono ritrovate improvvisamente qualche anno fa quando gli scavi nelle fosse comuni di Araguaia hanno riportato alla luce lembi del suo corpo: unghie sottili, macchie di sangue, sbaffi di saliva e soprattutto un paio di mutandoni in lana grezza, un classico allitaliana degli anni Settanta. Il test del Dna su quei resti avrebbe dovuto dire lultima parola sullidentificazione ufficiale, almeno questo era limpegno del ministro della Segreteria Speciale per i Diritti Umani del governo di Lula, Paulo De Tarso Vannuchi, sceso fino allaeroporto di Lamezia Terme per rassicurare mamma Elena. Suo figlio Libero, come il Che, combattè una guerra non sua. Figlio di emigranti in Brasile, cresciuto in fabbrica allinsegna dellutopia comunista che presto diventerà la sua unica ragione di vita, Joca fa presto carriera nel PcdB (il partito comunista do Brasil) bandito dallesecutivo del generale Lacerdo. I sopravvissuti ricordano lincoscienza, il fascino, la preparazione ideologica, la fedeltà alla causa di Joca. Tutte caratteristiche necessarie a sovrintendere alla Sicurezza del partito così da organizzare una specie di agguerrita armata brancaleone da inviare nella regione di Marabà, allo sprofondo di Araguaia. Impresa disperata, per numero di uomini e potenziale di fuoco. E dunque ancor più eroica, stando al romantico passaparola dei nostri fuggiaschi sudamericani. Tantè che tutti i commilitoni capeggiati da Joca muoiono nel dicembre 73 dopo un rastrellamento a tappeto dei militari. Così almeno sostengono i campesinos della zona, anche se per trentanni nessuno ha saputo dire dove fossero finiti i resti delle forze soccombenti.
Su Joca abbondano di particolari due ex militari, testimoni preziosi ai processi voluti da Lula. Il maggiore Sebastian Curno soprattutto, che conferma il ruolo strategico ricoperto da Libero, e dunque il perché nellaccanimento dei soldati dopo averlo braccato per 6 ore nella foresta di Faveira acciuffandolo in compagnia dei compagneros Maria Lucia Petit e Bergson Guria Fargas, trovati sepolti con le braccia conserte. La leggenda di Joca tramandata dai sostenitori dei rifugiati in Brasile non poteva non tramandarci un risvolto rosa: laffettuosa amicizia con una guerrigliera vispa e accattivante, chiamata Sonia, una sorta di Aleida March, la guerrigliana cubana del Movimento 26 luglio andata infine in sposa al Che. Nessun cenno, invece, sulla propaganda inconcludente del governo dellex presidente Lula che non ha mantenuto le promesse sulla velocità nelle ricerche dei militi ignoti dellAraguaia e sul riconoscimento ufficiale di quelli già rintracciati, a cominciare da quel che resta di Libero. Nel luglio dellanno scorso la segreteria per i Diritti Umani brasiliana ha frenato bruscamente invitando i fan di Castiglia ad attendere il test del Dna prima di cantare vittoria. A dirla proprio tutta, i brandelli di Joca a un certo punto non si capiva bene in quale diavolo di laboratorio fossero finiti e perché ancor oggi non siano stati compiutamente identificati.
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