Cultura e Spettacoli

Che ipocrisia la beatificazione di Mike

di Cesare Lanza

Che sofferenza e che disagio, ancora una volta, leggere e ascoltare adulazioni e celebrazioni, in dosi industriali, in occasione della morte di un personaggio popolare. Mi riferisco a Mike Bongiorno. Un’orgia di riconoscimenti e di esaltazioni, tali da mandare in tilt la glicemia di chiunque. Ma analoghe esagerazioni ci furono quando se ne andarono Federico Fellini (credo che proprio da lui e da lì sia partita questa grottesca stagione, ormai una moda, di commemorazioni prive di un pur minimo limite di oggettività) e poi Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Luciano Pavarotti, e Gianni Agnelli, e figuriamoci il Papa: un diluvio per giorni e giorni di pagine e titoli, di programmi televisivi, in un tripudio di conformismi odiosi e melensi luoghi comuni.
Non credo che l’uomo abbia un ruolo centrale nell’universo e non penso - è un’ovvietà, ma ricordiamola, dal momento che vistosamente si scorda - che la morte sia un fatto straordinario. Gli uomini muoiono, come il giorno e la notte, i fiori, gli alberi, una volta i dinosauri e oggi i cani e i gatti, gli uccelli, muoiono come i sogni, le avidità, le meschinità, i desideri, le ambizioni, le tentazioni, come tutte le caducità della nostra misera apparizione terrestre. Muoiono i nostri vicini di casa, i nostri genitori e i nostri figli, moriremo noi: è normale. Non capisco proprio perché, quando si tratti di un personaggio famoso e popolare, si debba trattare l’evento come una indispensabile santificazione del defunto, un episodio epocale, immancabilmente da consegnare alla storia... Eppure questo meccanismo compulsivo e, scusatemi, un po’ sciocco, scatta regolarmente, inesorabilmente, da ogni angolazione, senza memoria e senza pudore, per irresistibile e dilagante ipocrisia: perfino in morte di Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice di mostruosa bravura, odiata detestata e ferocemente aggredita in vita... perfino lei fu insultata un po’ meno, quando ci lasciò, o addirittura elogiata dai suoi acerrimi precedenti avversari.
Così, di Mike Bongiorno, abbiamo appreso - sono citazioni testuali! - che addirittura fu più importante di Garibaldi. Che può essere considerato un poeta dadaista e un attore vittoriano. Che ha unificato gli italiani, analfabeti, con il linguaggio dei suoi programmi. Anzi, che ha insegnato l’italiano agli italiani. E che dunque ha prodotto cultura. Che va ricordato, e guai a chi non ricordi, come una vittima della Gestapo, un martire di Mauthausen, un eroe della Resistenza. E anche un genio del candore, un campione di democrazia, l’amico di tutti, il pioniere dell’innovazione, l’anticipatore del futuro.
Santo subito? E perché no? Che almeno si inizi il processo di beatificazione. Vorrei però sommessamente sottolineare che elogi clamorosi, in misura copiosa, vengono oggi elargiti perfino da chi gli negò la realizzazione del suo intimo sogno, da quando Massimo Donelli lanciò l’idea, tanto stravagante quanto, al fondo, ragionevole (in contrapposizione non dichiarata ad altre discutibili nomine): eleggerlo senatore a vita.
Quanto al linguaggio di Mike unificante e istruttivo per il popolo analfabeta (ma vogliamo dire, per non esagerare anche in questo, che al massimo si può parlare di semianalfabetismo, nell’Italietta del dopoguerra?), prima che al popolare presentatore direi che il merito di una crescita, se non culturale quanto meno da scuola elementare, debba essere attribuita al linguaggio, enfatico ma essenziale, della divulgazione degli eventi sportivi nazionalpopolari, ai quattro giornali sportivi (un record mondiale) che raccontavano le imprese di Coppi e Bartali, della Nazionale di calcio, del Grande Torino, della Juventus, del Milan, dell’Inter; e, comunque, non certo solo a Mike, ma all’avvento della televisione in genere, da Carosello ai cosiddetti romanzi sceneggiati. E appare apprezzabile forse l’unico commento controcorrente registrato in questi giorni, quello di Paolo Villaggio: il livellamento culturale operato da Mike ci fu, ma in basso.
Certo è da condividere - è un fatto incontestabile - che Mike Bongiorno sia stato, se non il re, uno dei protagonisti dominanti, in 55 anni, della televisione italiana. Ma sarebbe stato interessante anche ricordare, a fronte dei suoi eccezionali successi, il limite artistico dell’inventore o meglio dell’importatore - in Italia - del quiz: quello di aver sempre e soltanto insistito, senza mai una deviazione o una diversa iniziativa, su un’unica idea di programma, proposto nelle più diverse e allo stesso tempo sempre uguali dimensioni. Mike (ch’era di un’avarizia divertente e incredibile, più di quella leggendaria di Alberto Sordi) ha sfruttato fino alle ultime gocce i programmi a quiz, dai trionfi iniziali fino a quando, anche per la moltitudine di imitazioni, non era rimasto quasi più niente da spremere, relegandosi a collocazioni minori, con ascolti modesti, lui che aveva ipnotizzato un intero Paese e obbligato i gestori dei cinematografi, al giovedi sera, a trasmettere il suo mitico Lascia o raddoppia?. Era scomparso pressoché dalla ribalta negli ultimi anni, fino a quando Fiorello, geniale, non lo riscoprì e non lo rilanciò in una veste del tutto nuova, quella del vecchio nonno simpatico, petulante e rimbambito.
Un merito assoluto gli va riconosciuto, quello di essersi sempre proposto con positività e propositività, in un mondo che si estinguerebbe senza il fascino illusorio della produzione e le trappole dell’ottimismo. E tuttavia e infine, ma questo è solo un fatto privato di pessimismo individuale, certo non mi permetto di proporlo e tanto meno di condividerlo con i lettori, ecco un’ultima obiezione che da tempo mi ritorna in mente, guardandomi intorno - anche oggi, nel giorno del suo funerale. «Allegria!»? Vorrei chiedergli ciò che non ho mai avuto il coraggio di domandargli in vita...

Ma di che? Ma perchè?
cesare@lamescolanza.com

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