«Che notti quelle notti! Cabaret, cena e pianobar»

«Ora Milano è cambiata: non c’è più vita di quartiere»

Non è cambiato. Nella sua terza gioventù - è nato a Milano nel 1938 - Nanni Svampa conserva lo spirito allegro, ironico, la battuta spiritosa dell’artista di cabaret che abbiamo amato al tempo dei leggendari Gufi, oltre alla raffinatezza culturale dell’autore, attore di teatro e cantante. Ci riceve nella casa sul Lago Maggiore dove vive con la famiglia - è sposato da quarant’anni - per raccontarci come ha vissuto gli Anni Sessanta, i momenti che hanno segnato - dopo la laurea alla Bocconi nel 1962 ed una breve esperienza nel teatro di Maner Lualdi - l’inizio di una carriera artistica ricca di riconoscimenti e che non ha avuto pause fino ad oggi. Svampa è il buonumore, l’ottimismo, la barzelletta pronta, la modestia e la serenità. «Forse sono approdato a questa professione - ha scritto nel suo libro Scherzi della memoria - perché il carattere mi ha sempre portato a cercare il risvolto umoristico nelle cose, nelle persone, nei fatti». Per lui i ricordi non diventano tristi, il passato assume una dimensione distesa, priva di rimpianto o di nostalgia.
«Non mi chieda del Derby» esordisce sorridendo. «Ne parlano tutti. È stato certamente un locale glorioso che ha visto protagonisti Enrico Intra, Franco Cerri, Jannacci, Felice Andreasi, Paolo Villaggio e tanti altri. Per qualche tempo vi ho lavorato anch’io, ma a quel tempo, a Milano i cabaret sorgevano come funghi. Con i Gufi - nati nel 1964 dal mio sodalizio artistico con Lino Patruno, Roberto Brivio, e Gianni Magni - abbiamo fondato Il lanternin nei pressi della Stazione Centrale, locale in cui abbinavamo il cabaret al jazz di qualità di solisti come Basso, Cuppini, Valdambrini e Zamboni. Poi c’erano Il Nebbia club del pianista chansonnier Franco Nebbia, il Cab 64 di Tinin e Velia Mantegazza, in cui si esibirono Bruno Lauzi, Polo Poli, Gino Negri, i debuttanti Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto. E non vanno dimenticate le storiche osterie come: la Briosca, el Tranin, Il Fraticello, la Magolfa, Il gatto nero. Ogni notte s’improvvisavano sceneggiate e canti. Poi si mangiava pane e salame. Si era creata una sorta di osmosi fra osteria e cabaret».
Come è nato - chiediamo a Svampa - il cabaret?
«È stata un po’ una combinazione di costume. Si potrebbe ricordare il cabaret teatrale dei Gobbi a Parigi, piuttosto sofisticato. Il cabaret aveva un pubblico d’élite e caso mai si agganciava alla comicità delle grandi riviste di Walter Chiari, Tognazzi, Macario e all’avanspettacolo. Portava una ventata nuova, originale d’umorismo, ma credo che si sia in realtà trattato di un’occasione. C’era gente che produceva canzoni, storie, monologhi nuovi sulla spinta di un grande fermento, di una continua euforia, dei segnali di qualità che giungevano dall’estero. Le nostre canzoni parlavano di donne avvinte come l’edera... Di giorno il boom economico trasformava l’Italia, di notte la borghesia voleva ridere ascoltando un umorismo diverso. I repertori cabarettistici erano composti da monologhi, brani musicali, in parte motivi popolari milanesi riproposti. Una musica d’espressione che parlava di vita, di amore, della periferia con la casa di ringhiera».
Un po’ come Georges Brassens che lei ha tradotto in milanese. «Brassens ha trattato l’amore da varie angolature. Il ricordo della prima ragazza, la storia umoristica fra una donna sposata che tradiva il marito che di mestiere costruiva parafulmini e doveva incontrare l’amante quando c’era il temporale o canzoni di grande dolcezza sull’inizio della vecchiaia».
Com’era la vita di allora?
«C’era aria di creatività, ma anche di dibattito. Erano gli anni dello scontro fra generazioni, dell’emancipazione femminile, dei tabù sessuali che cadevano uno dopo l’altro, del cambiamento del linguaggio. Che notti meravigliose trascorrevamo! Iniziavano nel locale, gremito di scrittori, artisti, giornalisti e professionisti prima ancora dello spettacolo. Dopo seguiva la cena con gli amici e via per Milano, in giro per una città con i bar aperti fino all’alba. Il nostro ultimo appuntamento era al piano bar dei nottambuli in via Gesù, il Calvin's bar. La gente voleva divertirsi, fare tardi».
Il dialetto milanese è stata la sua bandiera.
«Volevamo difendere una tradizione. Oggi lo parlano qualche vecchietta, qualche tassista... Una lingua ha ragione di esistere quando rappresenta una realtà. Milano è cambiata. Non esiste più vita di quartiere. I bar chiudono alle otto di sera. Quale occasione abbiamo di parlare in milanese? Della globalizzazione? Bisogna prendere atto che la vita sociale è diversa, ma io ho continuato a cantare canzoni in dialetto milanese e a tenere lezioni per il suo recupero anche attraverso la poesia. Questo non vuol dire che si deve tornare a parlarlo. È necessario invece salvaguardarlo culturalmente per i giovani, non tutti rimbecilliti dalle discoteche, ma che fanno anche la fila per ascoltare la lettura della Divina Commedia. Dobbiamo impossessarci di un'identità cittadina ed ogni CD che ho registrato è stato ottimamente accolto. Il più recente s'intitola Ma mi. Omaggio alla canzone milanese d'autore.

Viene fuori l'anima della città».
Come riassumerebbe in poche parole i suoi Anni Sessanta?
«Li ho vissuti come anni di grande attivismo, di spinta morale, di voglia di andare avanti. C'era la speranza di costruire il futuro».

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