Non c’è altro termine che pena per commentare gli incitamenti a che le manifestazioni studentesche diventino un detonatore e trascinino le masse in un nuovo sfolgorante Sessantotto. Pena per i cattivi maestri ormai imbolsiti che nelle sciammannate proteste dei ragazzi e ragazze, animati solo dal desiderio di «fare casino», sperano di rivivere la loro giovinezza. Gli uni lanciatori di sampietrini, gli altri con la P38, le gambizzazioni, le esecuzioni. Adriano Sofri, che dell’incitamento alla rivolta studentesca è il più lirico cantore, ne sa qualcosa. Mi riferisco agli omicidi. Quello del commissario Calabresi, per il quale è stato condannato con sentenze definitiva. Anche nel linguaggio non smentisce la sua vocazione: «Le proteste sono un buon segno, c’è ancora voglia di combattere». Combattere. Verbo intransitivo. Partecipare a uno scontro armato, a una azione bellica.
Pena anche per gli «studenti in lotta », così ignoranti, così sprovveduti da rimasticare il tritume di slogan, parole d’ordine e formule coniate quarantatré anni fa dai loro padri se non dai loro nonni. Persino la performance più apprezzata, l’assalto ai tetti, è roba vecchia, già vista, già sperimentata dagli «Uccelli »che nel ’68 occuparono la cupola romana di Sant’Ivo alla Sapienza. Solo che gli uccelli d’allora andavano anche a sfruculiare Alberto Moravia mentre i loro bambocceschi epigoni, Moravia non sanno nemmeno chi fosse ( nella scelta dei titoli dei romanzi da spennellare sugli «scudi» tanto fotografati e applauditi e che avrebbero dovuto dare il tocco culturale alle manifestazioni di piazza, in maggioranza gli studenti avevano optato per Harry Potter. Vi rinunciarono per l’intervento di un anziano reduce sessantottino: «Ahò, ma che siete scemi? Così nun vale... Mettetece Brecht!»). È dai tempi dell’Onda che stucchevoli intellettuali alla Sofri e giornali come La Repubblica soffiano sui fuocherelli studenteschi nel (penoso) tentativo di ossigenarli perché assumano le proporzioni del rogo, di un incendio che tutto travolga, tutto bruci, Berlusconi per primo.
Soffiano, soffiano, lisciano il pelo ai ragazzi dicendo loro che avendoli l’uomo cattivo «privati della propria voce» devono scendere in strada per «per prendersi un modo di manifestare la propria esistenza » (il virgolettato è del solito Sofri. Ma potrebbe essere benissimo di Nichino Vendola). Ma né l’Onda né i successivi movimenti sono riusciti a prendere il volo. Il fatto è che magari sono scarsi a voce, i giovani in piazza, ma ricchi di comodi, di conforti, di domestiche cure. E di ignoranza. Un forte gap, come s’usa dire, perché si sa: il benessere rende pigri nel fisico e il raglio dell’asino, specie se ben pasciuto, non giunge in cielo.
Però a loro è perdonato tutto: sono giovani, sono il futuro, sono il sole dell’avvenire e dunque guai a chi li tocca. Imperdonabile è invece la canagliesca manfrina di chi li incita al «combattimento ». Di chi ne fa scudi umani delleproprie senili fregole eversive e antagoniste. Non dimentichiamoci che ce lo promisero loro il futuro migliore, nel Sessantotto e nei «formidabili» anni Settanta. S’è visto. E invece di andarsi a nascondere, come sarebbe stato doveroso, rieccoli di nuovo in cattedra per affidare il testimone a un nugolo di chiassosi e allocchi rappresentanti dell’ultima generazione.
Pieni di buona volontà, questo è sicuro, ma è più forte di loro e della loro furia ideologica: a una cert’ora «staccano » per correre a casa a far merenda con la Nutella e a chattare su Facebook. E quando sono part time, le rivoluzioni, al massimo, tirano a campare.