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Che rabbia la mia città umiliata dall’impotenza

La pioggia sempre più fitta, le precauzioni tragicomiche, l’allagamento Così i genovesi hanno visto il proprio orgoglio inabissarsi sotto al fango

Che rabbia la mia città umiliata dall’impotenza

Un tappo la notte di Capodanno. Funziona così il primo tombino che salta davanti alla stazione Brignole, nel cuore del cuore di Genova.
Tutti sanno che a mezzanotte, che in questo caso è mezzogiorno, il tappo salta, che «deve» saltare. C'è scritto su tutti i bollettini meteo, su tutti i preallerta di enti di ogni ordine e grado. Ma, quando parte il getto dell'acqua che il tombino non regge più, creando anche un «effetto geyser» che spruzza altissimo verso il cielo, parte pure il più tragico dei Capodanni. In pochi secondi, cedono le sponde del Fereggiano e del Bisagno, il torrente-foresta che attraversa Genova, e interi quartieri si trasformano in fiumi d'acqua limacciosa che travolge tutto e tutti. Il fango inghiotte le auto una dopo l'altra e chi è alla guida a volte si trova immerso in una sorta di retromarcia naturale, senza poter controllare in alcun modo il mezzo. I cassonetti arrivano addosso ai vetri delle macchine come se fossero foglie d'autunno. Ma sono cassonetti metallici e di plastica, di quelli grossi, e pieni, pesantissimi. Non sono foglie.

Nemmeno il tempo di guardare, dal vetro della redazione, le vie centrali di Genova, persino via Venti settembre, la strada dello shopping, trasformarsi in quel fiume di fango che travolge tutto e sale a vista d'occhio; nemmeno il tempo di catapultarsi in strada, che già inizia il tragico conto dei morti. Ma, lo confesso, la prima sensazione non è nemmeno la tristezza, che poi arriva e sale un po' alla volta, soprattutto dopo che c'è la notizia delle bimbe morte. E lì gli occhiali sono fradici di lacrime, pioggia che entra e vapore di umidità, senza che tu riesca nemmeno a riconoscere qual è la pioggia e quali le lacrime.

La prima sensazione non è la tristezza, è la rabbia. Che sale come l'acqua che entra nelle scarpe, nei piedi, nei calzoni.
Le gocce che ci infradiciano sono ferite di rabbia. Perché lo sapevano tutti, lo sapevamo tutti, che il tappo sarebbe saltato. E il tappo, quando scoppia nella sesta città d'Italia, 608mila 676 abitanti all'ultimo censimento, è un tappo che fa più male di quello di tanti paesini. Sull'edizione ligure del Giornale di ieri, addirittura, facilissimi profeti di una profezia che non avremmo mai voluto raccontare, avevamo fotografato la drammatica situazione del Bisagno diventato foresta e avevamo raccontato come fosse assurdo e incredibile che, da un lato, si chiudessero parchi e cimiteri e, dall'altro, si tenessero aperte le scuole. Che, da un lato, si scrivesse su carta intestata del Comune che era sconsigliato uscire di casa e si pregava caldamente di non mettersi in auto, e dall'altro si lasciassero i bambini in balia dello scoppio della più annunciata delle bombe d'acqua. Si muore di impotenza. Un po' alla volta, va sott'acqua mezza città. E, paradossalmente, è quella per cui non sono state prese particolari precauzioni. Tutta l'attenzione è concentrata su Sestri Ponente, popoloso quartiere di Genova, una città nella città, addirittura con il suo patrono autonomo, dove lo scorso anno c'è stata un'alluvione con una vittima. Lì, una scuola l'hanno chiusa. Ma lì, a lungo, non cade nemmeno una goccia di pioggia.

E invece il tappo salta nel levante, a Nervi, a Quinto, a Quarto, a Sturla, in corso Italia, la passeggiata a mare della città, alla Foce, in Valbisagno, per poi spostarsi verso il ponente. Come botti del più triste e tragicamente atteso San Silvestro, saltano tutte le reti idriche, telefoniche, del gas, della luce. Salta la linea ferroviaria, chiude la stazione di Brignole, chiude l'autostrada, le sirene di ambulanze e pompieri sono la colonna sonora della giornata, cadenzate come la musica delle orchestrine e tanto più forti, tanto più stridenti, nel silenzio surreale che avvolge le strade. E proprio le sirene e gli altri rumori della giornata sono l'unità di misura di quello che succede, raffiche di vento che soffiano come nelle favole «di paura», tuoni minacciosi alternati a lampi che squarciano il fronte delle nubi sempre più nere, sempre più cariche di pioggia, sempre più pronte a riempire quel fiume che scorre sotto, limaccioso e devastante. Tutte le botteghe e i portoni ai piani bassi dei quartieri di Marassi sono completamente inondati d'acqua.

In qualche caso, il fiume di fango è talmente veloce e forte da scardinare le serrande di chi aveva chiuso per mettersi in salvo prima dell'ondata di piena. Ma non c'è saracinesca che tenga: l'acqua le apre e le taglia come scatolette di tonno ed entra dappertutto, rendendo ancor più insopportabile il chiacchiericcio politico di fondo. E le auto si incastrano in quell'acqua sempre più sporca, sempre più cattiva, sempre più veloce e sempre più alta.
Dietro gli occhiali ormai completamente oscurati di acqua e vapore non si vede più nulla. Dai piedi, sempre più fradici, sale addosso un'umidità che ti prende completamente, anche dentro. L'umidità dell'impotenza e della rabbia perché che il tappo sarebbe saltato lo sapevamo.


Fa più male.

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