Chi ama gli animali non può dire "no" alla loro dolce morte

Staccare la spina a cani e gatti incurabili non è un atto di crudeltà ma di grande rispetto

Chi ama gli animali  
non può dire "no" 
alla loro dolce morte

Pochi giorni fa ha destato scalpore la notizia che il 30 per cento degli italiani sarebbe favorevole alla «pena di morte» per i cani randagi.
Sono certo che se la domanda fosse stata formulata in modo più adeguato, utilizzando ad esempio il termine «eutanasia», la percentuale dei favorevoli avrebbe subito un ulteriore incremento.
Se poi le persone avessero piena conoscenza del modo corretto e reale in cui, come elegantemente dicono gli inglesi, un animale «viene messo a dormire», la percentuale dei favorevoli salirebbe ancora e questo sarebbe un segno di grande civiltà.
Così, l’atto dell’eutanasia sugli animali, talvolta viene vissuto con sollievo (si pensi solo al colpo di grazia dei cavalli fratturati nella cinematografia western), ma la maggior parte delle volte, causa la mancata conoscenza dei fatti, è immaginata come un atto cruento, quasi di forza bruta.
Questa visione distorta porta a decisioni che, in animi ipersensibili o permeati di un animalismo estremo, costa a chi versa in una sofferenza immedicabile e senza futuro, giorni o settimane di atroci tormenti.
Spesso ci si mette di mezzo la fede religiosa che, se del tutto lecita per la propria sorte, viene chiamata a sproposito per le sorti di un animale: «Ah, dottore, ci penseranno la natura e soprattutto il buon Dio».
Così mi disse una signora timorata di Dio cui avevo proposto di mettere a dormire un gatto di 16 anni affetto da un cancro che si chiama carcinoma spinocellulare e che aveva colpito l'orbita oculare. Lo vidi in punto di morte quando, guardandogli l'occhio riuscivo a vedere il quadro sul muro, perché il male aveva divorato tutto, come se un grosso proiettile lo avesse passato da parte a parte. Forse un buon Dio non avrebbe voluto tanto dolore.
Sia chiaro che la finalità di quanto scrivo non è quella di incitare a soppressioni di massa, come qualcuno ha inteso (malignamente) in un mio precedente articolo sul tema, ma desidero che, per crassa ignoranza o inopportuno senso di devozione religiosa, gli animali non siano lasciati nell'inutile sofferenza, quando per loro il futuro è fatto di dolore inarrestabile o di privazione della dignità di vivere. L'uomo scelga quel che più gli detta la sua morale. Vi sono comunità per le quali il dolore è una fonte di espiazione dei peccati commessi sulla terra. La fede in Dio o nelle possibilità della scienza rende la sofferenza più comprensibile e sopportabile.
Chi crede in Dio ha un peccato originale da scontare che nessun sacerdote è in grado di cancellare. Solo una morte dolorosa può arrivare a tanto.
Da laico io sono graniticamente favorevole a che ognuno scelga liberamente della sua vita e della sua morte. Chi vuole soffrire in nome di Dio ha tutto il mio rispetto. Lo abbia del pari anche lui per la mia libertà di coscienza.
Negli animali l'etica è meno complessa e invadente. Il cane o il gatto, sottoposti a una sofferenza acuta e prolungata nel tempo, non hanno la capacità di razionalizzarla. Infatti tendono a fuggire e a nascondersi da qualcosa che piomba loro addosso senza un motivo, una sorta di punizione che addirittura, in alcuni casi, tendono a imputare al proprietario. A questo punto, se la sofferenza non ha speranza ed è fine a se stessa, è la nostra coscienza che c'impone d'intervenire.
L'eutanasia si può svolgere nella clinica veterinaria o tra le mura domestiche, purché avvenga al riparo da curiosi e con la dignità che si deve a un carissimo amico che ci lascia per sempre.


Dalla premedicazione (ansiolitica), all'induzione della perdita di coscienza (anestesia) alla somministrazione dei farmaci che bloccano cuore e respiro, il tutto deve avvenire con estrema dolcezza, senza guati, miagolii, inseguimenti, costrizioni, traumi. Silenzio, penombra e il pianto liberatorio di chi è stato il fedele compagno di anni felici.

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