Chi contesta la riforma dimentica lo sfascio della giustizia

Il grido di dolore si alza dai quattro angoli d’Italia: l’Aquila, Viareggio, Parmalat. L’Italia dei disastri va in prescrizione. È la vox populi, ma è davvero così? Si può ragionare sulla prescrizione breve in termini non emotivi? Si parla di Parmalat, di una «scheggia» della vicenda che va a sentenza, a Milano, il 18 aprile, per lanciare l’allarme. Ma è corretto ragionare così? Il dibattimento milanese che fa da detonatore riguarda quattro banche straniere e cinque imputati in tutto. Il disastro è altrove, a Parma: la sentenza di primo grado per la bancarotta, insomma la sostanza del crac, è arrivata a fine 2010. Ci sono voluti sette anni dagli arresti del dicembre 2003, l’appello è di là da venire. E il processo per la bancarotta, questa volta contro le banche estere, avanza faticosamente sempre a Parma. La verità è che, processo breve o processo lungo, la giustizia arranca.
Il ministro Alfano dà i suoi numeri: solo lo 0,2 per cento dei processi è a rischio con la nuova legge. Già oggi invece la falce del tempo che passa fa morire quotidianamente più di 450 processi. Centosessanta-centosettantamila l’anno.
La giustizia viaggia a due velocità. A volte corre a perdifiato, come è capitato con David Mills: dal tribunale alla Cassazione in un anno e anche meno, ma comunque troppo per non finire dentro la solita palude della prescrizione. A Bari, invece, per la Missione Arcobaleno sono passati undici anni dagli arresti del 2000 e dall’apertura di un’inchiesta che aveva messo in imbarazzo i Ds. Il dibattimento di primo grado è un balbettio alle battute iniziali. La prescrizione toglierà tutti dall’imbarazzo.
A Lucca si aspetta il processo per la strage di Viareggio: Viareggio è già un caso politico, ma ci vorrebbe più sobrietà. A quasi due anni dal disastro, la prima udienza è ancora un miraggio. Forse ci arriveranno l’anno prossimo. Forse. Ma sono previsioni. Per ora siamo in attesa.
La giustizia è un’attesa che può durare anni e anni. Dieci anni per scoprire che la famiglia dell’ex portiere del Milan Giovanni Galli non avrà giustizia per la morte del figlio Niccolò, una promessa del calcio italiano. Morì nel 2001 andando a sbattere contro il guardrail, danneggiato e trasformato in una trappola mortale, su un cavalcavia di Bologna. Dieci anni dopo è tutto prescritto. E che giustizia avranno i coniugi Covezzi, accusati di spaventose violenze domestiche, condannati in primo grado e assolti qualche mese fa, quando i loro figli, portati via dalla polizia il 12 novembre ’98, erano ormai grandi?
Alcuni giornali e tv continuano a ripetere che la vituperata legge sulla prescrizione riduce i tre gradi di giudizio ad una corsa ad ostacoli contro il tempo: tre anni per il tribunale, due per l’appello e uno e mezzo per la Cassazione. È falso, non è più così, il testo del Senato è stato cambiato dalla Camera: se si sforeranno i termini i processi non si estingueranno, semplicemente il capo dell’ufficio farà una segnalazione. Sai che stravolgimento. Cambierà poco o nulla a parte la barzelletta semantica di definire breve un processo di sei anni e mezzo.
La verità è che il sistema va ripensato. Partendo dal nuovo codice penale, quello partorito in tante versioni successive dale commissioni Nordio, Pisapia, Grosso ma mai entrato in vigore.

Quello che sfoltisce la babele dei troppi reati. E che vanno rivisti i meccanismi dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per questo la riforma costituzionale varata dal governo è essenziale, anche se da sola non basta.

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