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Chi ha paura del canto degregoriano al Carlo Felice?

Chi ha paura del canto degregoriano al Carlo Felice?

(...) Ma, per l’appunto, al di là della politica, il resto degli interventi sono molto positivi: sia quelli sulla linea dell’apertura del Carlo Felice al musical e alla musica leggera (da quello, come sempre ottimo e abbondante, di Sergio Maifredi, uno che ha la forza di dire sempre qualcosa, a quello del commissario Giuseppe Ferrazza, a Gregorini qui a fianco), sia quelli un po’ più scontati e classici, per non dire vecchi, come quello della nostra Barbara Catellani, vestale della verginità della programmazione del Carlo Felice e della castità dei suoni nel nostro teatro dell’opera, capace di indossare dialetticamente una partitura come una mannequin un vestito e di farsela scivolare addosso. Come dire? nell’occasione, troppo Barbara e troppo poco Barbarella, nel senso cinematografico della parola. Poco rivoluzionaria, insomma.
E poi, l’articolo delle due anime del Politeama genovese Savina Scerni e Danilo Staiti che pongono un problema ancora ulteriore e lo fanno a pieno titolo, visto che il loro teatro fa cultura senza attingere alla mammella della mucca pubblica. Come sempre, siamo aperti a ogni idea. Anche diversa dalla nostra. Si chiama liberalismo, si chiama libertà. E il nostro popolo la difende sempre e comunque, anche senza corsivi e maiuscole.
Quello su cui però mi piacerebbe tornare è la piena dignità delle culture altre a calcare il palco del Carlo Felice. Le verginelle della programmazione hanno ironizzato sul fatto che Tiziano Ferro sia l’erede del melodramma italiano. Ma davvero c’è qualcuno che pensa che Tiziano sia inferiore alla musica classica post-ottocentesca? Che siano meglio Berio o Nono o Stockhausen? Ma è possibile che non ci si renda conto che alcune pagine di Francesco De Gregori - da A Pa’, la canzone dedicata a Pier Paolo Pasolini a Natale di seconda mano, con l’orchestra di Nicola Piovani alle spalle, ma potrei citarne decine e decine - sono pezzi di cultura italiana molto più di tanto Donizetti minore, di certo Bellini e, perché no?, persino di qualche pagina di Verdi, Puccini o Rossini, che comunque restano i più grandi?
Eppure, su La Repubblica-Il Lavoro Margherita Rubino ha scritto un articolo, di cui abbiamo già parlato, significativo a partire dall’occhiello, la righina sopra il titolo: «La denuncia». Bum. E il titolo? «Ferrazza vuole più musical e cantanti pop». Doppio bum.
Seguono domande, anche su De Gregori: «Arricchisce il Carlo Felice o lo declassa? Certo, può affascinare l’idea di un Carlo Felice popolare, grande contenitore per spettacoli di varia natura, ma dove stanno i confini della “varia natura“?». E qui la Rubino prova a dare una sua risposta: «Non è facile per un cittadino comprendere come la “popolarità“ del Carlo Felice stia proprio nella sua ben determinata e specifica funzione di teatro lirico, nei centocinquant’anni della nostra tradizione forse più importante, nel rispetto di quella e di se stesso. Un grande e antico Teatro dell’Opera è la bandiera di una grande e antica città». Ma siamo sicuri che la civiltà di una città si misuri dal Teatro dell’Opera e magari dal numero dei suoi dipendenti? O persino dai tre milioni di euro aggiuntivi che ancora ieri la Regione ha stanziato per la Fondazione Carlo Felice?
Siamo certi che la bandiera non siano la pulizia della città, le manutenzioni, il verde pubblico, la qualità della vita, i servizi alla persona, la sicurezza, la cultura in ogni senso e non solo il numero di opere programmate che piacciono alla gente che piace?
Margherita non lo sa, o almeno ha un’idea diversa dalla mia.

Infatti spiega che non si deve «perdere di vista quello che è un simbolo culturale e politico, in senso alto, della città. I Romani arrivarono a ospitare, negli edifici costruiti per la tragedia greca e latina, spettacoli circensi e battaglie navali; ebbero successo, ma persero il teatro».
Visione apocalittica. Non è la mia.

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