Chi sparla di Fini

Per sopravvivere alla noia del prodismo bisogna pur inventarsi qualcosa. Gonfiando notiziole, ad esempio, o creandone ad hoc. A destra, gli oppositori di Gianfranco Fini sostengono che il presidente di Alleanza nazionale abbia con sé il favore dei mass media: perché è glamour, (quasi) sempre abbronzato e politicamente corretto. E perché, sui diritti civili o l’integrazione, incarna una destra un po’ sinistra: il che, visto che abbiamo subìto per anni la boria di giornalisti e intellettuali di sinistra che ci sono venuti a spiegare cos’è e come si fa la destra, non sarebbe un male. Sarebbe bello, ma è vero il contrario. Fare l’antifiniano, oggi, è diventato un mestiere mediaticamente molto remunerativo, un richiamo in prima pagina, un’intervista o una notarella bella in evidenza non te la nega nessuno, a manca e a destra.
Perché se la destra finiana è metropolitana e metrosexual, la destra antifiniana è strapaesana, l’antifiniano è macho e, di questi tempi, anche molto Giovanna d’Arco. Volete qualche esempio? Eccovene alcuni. A luglio l’assemblea di An approva un documento di indirizzo programmatico, apprezzato persino in alcuni settori «a destra della destra», in cui ci sono scritte cose criticabilissime, per carità, ma politicamente importanti: i nuovi conflitti sociali che stanno emergendo, l’attenzione per i diritti civili, la riflessione sul rapporto tra immigrazione e identità nazionale. C’è scritto che i vecchi termini di statalismo, liberismo o conservatorismo appartengono al Novecento, e che bisogna elaborare nuove formule politiche. Un’indicazione di metodo perlomeno stimolante. Risultato: tutti i giornali optano per il giochino «dentro il Ppe, fuori dal Ppe», azzoppando un dibattito ideologico che si annunciava promettente. Esce un’intervista sull’Espresso dove Fini, sui triti e ritriti temi dei Pacs e dell’islam, esprime posizioni definite «ponderate» anche da qualche ultracattolico, e il giorno dopo qualcuno parla di «salti in avanti». Intesi non in positivo ma in negativo, come evirazione o viaggio nell’ignoto, come svolta in un vicolo cieco. Chi accusa Fini di filoislamismo, spesso, sono gli stessi che ne criticavano l’eccessiva vicinanza a Israele. Risultato: la «base» fibrilla, gli «intellettuali» scalpitano in nome dei «valori». Valorificio a parte, a destra da tanti antifiniani non s’ode mai uno straccio di proposta concreta - tanto per dire - in tema di sicurezza, cittadinanza, politica industriale. Ma i «valori», quelli, guai a chi li tocca... Il «caso Santanchè», poi, sta assumendo toni spettacolari: la semplice rimozione da un incarico diviene questione da talk show, interviste in prima serata, paginoni. Gli stessi che accusano Fini di misoginia sono gli stessi che lo accusavano di trasformare la destra in senso fimminacratico. Si dimentica subito che il Secolo d’Italia ha un direttore donna, il sindacato Ugl un segretario donna, la Camera una vicepresidente giovane e di An. Gli stessi che prima sanzionavano il «santanchismo» ora corrono con penne e microfoni appresso alla Daniela. A nessuno frega che finalmente anche a destra sta venendo fuori un sistema organizzato di produzione culturale o una classe dirigente di trenta-quarantenni. E questo sarebbe il favore mediatico di cui gode Fini? Meno male... E non è vero che ovunque funziona così. In Francia Nicolas Sarkozy interpreta il suo messaggio elettorale della rupture anche come un aggiornamento del bagaglio ideologico della destra repubblicana e del vecchio gollismo. Gli avversari polemizzano con il presidente dell’Ump, ma senza mai sognarsi di ridurre la discussione a chiacchiericcio da anticamere e gossip di qualità scadente. In Gran Bretagna David Cameron sta rivoluzionando i vecchi tories, ingrigiti e perdenti, parla di diritti civili, di ambiente, del disagio delle nuove generazioni, della qualità alimentare, tant’è che s’è pure fatto una passeggiata per il mercato di Londra con il fondatore di Slow Food Carlo Petrini.
I giornali inglesi guardano con grande curiosità al leader zapatory: non manca l’ironia, ma nessuno si sognerebbe di ridurre la battaglia di Cameron ai pannelli solari montati sopra casa o le gite in bicicletta. In Italia è il contrario. Forse per pigrizia forse per paura, qualcuno preferisce non uscire dagli stereotipi - «trappole mentali», ha scritto Alessandro Campi - sulla destra minoritaria nell’azione culturale e nel radicamento sociale.

A qualcun altro, ovviamente, sta benissimo che le cose rimangano così: quindi, quando si prova a disegnare, con la fatica e l’approssimazione che ogni progetto implica, il volto di una destra innovatrice e pure un po’ spregiudicata, è meglio buttarla in caciara. L'importante è che non si parli politica.

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