Non sappiamo se il ministro Tommaso Padoa-Schioppa abbia voluto prendere le distanze dal governo e dallo stesso documento di programmazione finanziaria, o sia un poeta della politica economica. Nella conferenza stampa di presentazione del Dpef, infatti, ha detto che «se il nostro Paese attuasse pienamente il piano di Lisbona (la strategia di rilancio economico decisa nel 2000 dal Consiglio europeo) l’Italia potrebbe crescere a tassi vicini al 3% annuo piuttosto che al di sotto del 2%».
Ma a chi bisogna dirlo perché il sogno diventi realtà? Fino a ieri, in verità, pensavamo che fosse il governo ad avere nelle mani gli strumenti normativi e finanziari per riprendere il circolo virtuoso di una crescita competitiva e non inflazionistica traendoci da quella condizioni di minorità che ci vede da molti anni agli ultimi posti fra i Paesi della zona euro per tasso di crescita. L’invito leopardiano di Padoa-Schioppa, invece, ci convince che il governo ormai ha gettato la spugna. E allora a chi altro mai dovremo rivolgerci perché tutto questo si realizzi? Ad Epifani, Bonanni e Angeletti o al simpatico Luca di Montezemolo che intanto, a scanso di equivoci, ha portato il suo fondo d’investimento «Charme» in Lussemburgo? Mistero. Così come misterioso è il fatto che dopo la scorsa finanziaria fatta da 350 pagine di norme e ben 1350 commi, a giudizio di Padoa-Schioppa non siamo ancora riusciti a «riassorbire il nostro potenziale di crescita bloccato dalle nostre inefficienze».
Dovremo forse scrivere un’enciclopedia per rimuovere le cause che tengono bloccata la nostra crescita economica? Cerchiamo di essere seri. Nel documento il governo indica come esplosivo per la spesa corrente il settore del pubblico impiego, dimenticando il rinnovo contrattuale che lo stesso governo ha firmato appena qualche mese fa. Per non parlare della sanità la cui spesa ha un tasso di crescita sempre più espansivo mentre settori come la sicurezza e la giustizia rischiano di non avere i soldi per pagare la benzina e gli affitti.
L’annuncio dell’inizio degli sgravi fiscali è poi abbastanza confuso. Si ridurrebbe l’Ici sulla prima casa ma per i redditi più bassi, molti dei quali, peraltro, non sono proprietari di casa. «Si annuncia una diminuzione della tassazione sulle imprese (l’Iref) riducendo l’aliquota del 33% ma aumentando la base imponibile. Così come detto, sembra un perverso gioco delle tre carte con un saldo tributario pressoché uguale se non addirittura superiore per il lavoro autonomo e per le piccole e medie imprese. Si parla di una verifica degli studi di settore ma intanto restano in vigore gli attuali indici di normalità economica che hanno generato la protesta popolare del ceto produttivo.
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