Cronaca locale

Chinatown, un «fortino» dove non si parla italiano

Confini fisici e barriere culturali. «Chinatown» è per tutti quel fazzoletto compreso tra le vie Sarpi, Canonica e Bramante. Fortino nel cuore della città e micromondo che da vent’anni ha alzato una muraglia proteggendosi dallo sguardo dei padroni di casa. Al suo interno la comunità ha lavorato per cambiare i connotati a quello che fu «il borgo degli ortolani»: c’erano una volta case di ringhiera e cortili alla milanese, vie strette coi suoni e i profumi delle botteghe artigiane, negozi di vicinato. Immagine in bianco e nero sbiadito che i residenti più combattivi ancora sottopongono all’attenzione di urbanisti e mediatori culturali, bravi a predicare la fede nell’«integrazione» a chi ormai ha perso la pazienza.
Salvo poi trovare conferme a ciò che molti temono, perché - spiegano gli studiosi di statistica della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) -, l’integrazione è un «bene» che si può misurare. Infatti, sfogliando l’ultimo rapporto sull’immigrazione straniera in Lombardia e nella metropoli si apprende che, nonostante siano una delle etnie con la più antica tradizione in città, i cinesi sono anche i meno inseriti nel tessuto sociale che li ospita. Peggior risultato in assoluto se confrontato con quello delle altre cittadinanze. Meno di albanesi, romeni, egiziani, indiani.
Lo strumento elaborato dall’Ismu si chiama «integrometro», funziona attraverso indicatori che tengono conto del fatto che «maggiori sono la conoscenza e frequenza d’uso della lingua italiana, livello d’informazione e legami con la popolazione autoctona e con le altre comunità presenti sul territorio, maggiore è la possibilità di una completa integrazione dell’immigrato». Oltre naturalmente all’influenza delle condizioni economiche, abitative e lavorative di ciascuno. Il punteggio massimo ottenibile è 1 (massima integrazione), quello minimo 0 (nessuna integrazione). Ebbene, secondo la Fondazione, a Milano i 17.550 cinesi regolari più i circa 3.200 irregolari raccolgono soltanto 0,33 punti, piazzandosi in coda alla classifica per nazionalità a fronte di un livello medio d’integrazione pari a 0,45. Non va meglio se si considerano gli arrivati in città da almeno 5 anni (punteggio 0,44): il gap che li separa dagli altri gruppi rimane considerevole. Ulteriori elementi non lasciano dubbi sull’isolamento in cui vive il popolo venuto da Oriente. Basta osservare come hanno risposto i cinesi davanti ad alcune domande chiave. L’indagine testimonia che «la Cina paga la maggior lontananza e la tendenza a chiudersi entro la propria comunità». Vale a dire: un cinese su due dichiara di frequentare solo amici non italiani, il 90 per cento afferma che i propri amici non-italiani sono esclusivamente o prevalentemente connazionali. Non è tutto. Il 50 per cento dei cinesi conosce poco o per nulla la lingua italiana (per gli altri stranieri la media è il 17%), otto su dieci non la parlano «mai» in casa, il 50% mai nel tempo libero e persino sul lavoro appena il 30% la utilizza sempre.

Il 15 per cento addirittura (il doppio rispetto alla media regionale) non si interessa affatto di quello che accade attorno a loro, oltre la «muraglia» ideologica eretta in via Paolo Sarpi.

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