Ci siamo: non ci resta che soffrire

Cazzeggiare sul Dio pallone davanti alle macerie è difficile. Ma dalla resurrezione della normalità passa quella delle anime. Il mio Toro, finalmente Toro, conosce da sempre il sapore della polvere e rappresenta alla perfezione il miracolo della rinascita. Vorrei donare un pezzo di questa vittoria a chi ha pagato con la vita l’ira funesta della natura, amplificata dalle ruberie altrui, ai tanti tifosi granata abruzzesi che hanno pianto lacrime vere e che speravano in un raggio di normalità. Vorrei, se posso. Perché è questa maledetta consuetudine di appaltare a un pallone l’odore del riscatto sociale, che rende incerto - e quindi magico - questo sport ammantato di opulenza ma sporco di fango. Nessuno nella vita può restituirci quel che abbiamo perso, ma la speranza no. Quella non ce la può togliere nessuno. Evito di mandare a quel paese chi ci dava per spacciati, che la puzza della B non ce la siamo ancora lavata via. Onore a Camolese, che ha saputo restituire una dignità, prima ancora che un gioco (ma verrà anche quello) a giocatori bolliti. Mi è spiaciuta un po’ la staffetta Rosina-Gasbarroni, la cui coesistenza spero sia meritevole di un’ulteriore riflessione, così come spero che il mister si ricordi di quel genietto di Vailatti.

Lasciare fuori gente con polmoni e fosforo come lui è un lusso da ricchi che non ci appartiene. Se la fortuna gira, il cervello e le gambe pure (e l’arbitraggio è decente, grazie Orsato per il regalino nel finale...) non dobbiamo temere nessuno. Non ci resta che soffrire.

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