Andrea Acquarone
nostro inviato a Bardonecchia (Torino)
«Ho corso, ho corso per due chilometri, cercando di fermare le macchine che mi venivano incontro. Urlavo, mi sbracciavo, gridavo alla gente di fare retromarcia, di tornare indietro. Il fumo non ci faceva respirare, era troppo. Alla fine ho dovuto scappare, non si poteva più stare lì dentro, sembrava un forno». Cambia il modello del camion, cambiano il nome e la nazionalità dell’autista, ma qua a 1.200 metri di quota in cui ci si infila nel tunnel del Fréjus, sembra di assistere al replay del 24 marzo di sei anni fa. Era il 1999, allora i morti furono 39 e anche quel giorno a prendere fuoco fu un Tir. Era belga.
Mancavano una decina di minuti alle 18 ieri quando il Renault Magnum di Dalibour Vuksanovic ha cominciato a perdere colpi. Chilometro 4, versante francese. Dal Belgio, da dove era partito venerdì mattina, stava attraversando il confine italo-francese, destinazione Milano. Settanta-ottanta chilometri al massimo di velocità in salita, il «bisonte» era carico di gomme, stipato di Bridgestone che Dalibour trasportava per conto della Gnoli Group 2000 Servizi di Milano. Serbo di 23 anni, bermuda scuri, scarpe bianche da ginnastica, si agita al telefono davanti alla stazione dei poliziotti di frontiera. Sono le 23, hanno appena finito di interrogarlo. È lui il protagonista involontario della nuova tragedia che sconvolge la vallata poche ore dopo l’imponente manifestazione contro i treni ad alta velocità e contro un secondo tunnel di sicurezza. Dalibour parla con la mamma che abita a Vittuone, in provincia di Milano. Le chiede supplicante di venirlo a prendere. Lei gli risponde di sì, è già partita con un amico. Restituisce il cellulare a un altro dei due camionisti che gli siedono accanto. Sono i suoi compagni di sventura. Anzi, gli altri due sopravvissuti. I suoi altri due telefonini si sono fusi nel Tir andato a fuoco. «Non ho fatto in tempo a prenderli - spiega visibilmente choccato - ho visto all’improvviso il fumo uscire dal motore, il camion non andava più e ho dovuto fermarmi: era partita la pompa del gasolio, probabilmente perdevo carburante. Ho fatto appena in tempo a scendere e la cabina è esplosa. Sono vivo per miracolo». I filmati ripresi dalle telecamere a circuito chiuso confermeranno il suo racconto. Un agente gli si avvicina, gli chiede di declinargli ancora una volta nome e cognome.
Sandali ai piedi e una coperta sulle spalle a ripararsi dalla note fredda del Fréjus, Yannick Ayache trema. Ha 32 anni, è un francese algerino. Lui sedeva su uno Scania carico di mozzarelle. Era partito da Ravenna, destinazione Londra. Ci sarebbe dovuto arrivare per lunedì. Si trovava nella corsia opposta quando il camion del serbo si è inchiodato incendiandosi. Non ha potuto far altro che fermarsi. Dietro, su un altro «bisonte», viaggiava un rumeno, Adam Lorand Zsolt, trasportava colla. Un incredibile mix di materiali ad alta combustione.
Si è sviluppato un calore tremendo all’interno del tunnel, «almeno mille gradi», dicono i soccorritori della Sitaf. Nessuno dei tre autisti sa ancora che in quella galleria trasformatasi, a dispetto delle nicchie, dei «luoghi sicuri» dotati di porte antincendio e sistemi di aspirazione, ci sono almeno due cadaveri. Un bilancio provvisorio. «Davvero è morto qualcuno?», domandano. Una smorfia sul volto di Yannick sembra un sorriso, ma è solo un ghigno isterico. Prova a cambiare discorso, chiede qualche spicciolo per comprarsi un panino. Poi si arrabbia. Lo ha detto anche alla polizia: lui ce l’ha con un camionista che lo seguiva e che lo ha superato mentre si fermava davanti al mezzo che bruciava. «Aveva il finestrino aperto e mi ha mostrato il dito medio...
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