Cibo e vestiti: Italia a due velocità Nord carissimo, Sud ancora low cost

La lente d’ingrandimento leghista sbircia tra le pieghe della busta paga di un anonimo metalmeccanico veneto, di un indefinito muratore lombardo, di un ignoto addetto alle poste friulano. E no, qui i conti non tornano davvero. Per i lavoratori del Nord, al netto del reddito mensile, va sottratta una «tassa occulta» che si chiama costo della vita. La cui incidenza sembra scendere lungo lo stivale di pari passo con la latitudine.
Proprio così, fanno notare i contabili padani, provate a fare la spesa a Milano e poi ad Avellino e capirete la differenza. Come minimo, una casalinga meneghina spenderà il 30 per cento in più della sua omologa campana. Il senso comune si accompagna, comunque, alle statistiche ufficiali. Disponibili a decine, basta scegliere. L’ultima rilevazione dell’osservatorio sui prezzi del ministero dello Sviluppo economico ha trasformato il metodo empirico in un’indagine a tappeto nella penisola. Sono stati confrontati i listini di vendita di venti prodotti di largo consumo (tra cui pane, pasta, latte e caffè) dalla Madonnina al Vesuvio. Con risultati eclatanti: per comprare un chilo di pane a Rimini, ad esempio, servono mediamente 3,75 euro, mentre a Napoli ne bastano 1,94. Cioè la metà. Scontrini alla mano, in un anno fanno 4.127 euro nel carrello contro 3.043. Equivale a un risparmio di oltre 1.000 euro a favore di una famiglia del Sud. Con le debite eccezioni in controtendenza, è il caso delle toscane Siena, Firenze e Grosseto, o città di confine come Gorizia e Trieste. Però lo scenario nazionale è evidente. D’accordo, si obietta, nel meridione i salari sono più bassi in termini nominali. Ma quello che conta è il potere d’acquisto reale. Insomma, si tratta di quel «surplus» del consumatore spesso ridotto a zero da Roma in su, specie nei grandi centri.
Un recente studio Istat ha preso in considerazione tre diverse categorie di beni - alimentari, arredamento, abbigliamento - pari al 40 per cento della spesa totale delle famiglie italiane. Un’altra prova a carico del divario dei prezzi esistente tra Nord e Sud. È ufficiale che ad Aosta, Genova, Venezia o Bologna il cibo sia più caro di oltre il 5 per cento rispetto alla media nazionale. Abbondantemente sotto l’asticella, invece, Campobasso, Bari, Potenza, Reggio Calabria, Palermo. Tra la città più cara (nemmeno a farlo apposta, Bolzano) e quella «low cost» in assoluto (di nuovo Napoli) c’è una distanza pari al 25 per cento. Decisamente troppo, a parità di entrate.
Il dipendente, pubblico o privato che sia, ormai conosce molto bene il «fardello» della pausa pranzo. L’osservatorio Codici stima in 184 euro pro capite la spesa media a Milano o Roma tra panini, un primo veloce, pizze, insalate e bibite. Per l’«affamato» impiegato settentrionale i ticket - quando gli spettano - non bastano quasi mai a coprire l’esborso quotidiano. Un’abitudine, quella del pranzo feriale al bar, ancora poco diffusa al di qua del Tevere. Ad ogni modo, la spesa mensile per identiche necessità a Lecce o Catanzaro raramente supera i 129 euro (-30%).
Non è finita: ad alleggerire il portafoglio degli italiani concorre la spesa per servizi pubblici locali (energia, acqua e trasporti). Tuttavia, la classifica delle città stilata da Sviluppo economico e Cnel si fa variegata, mischiando Nord e Sud. In cima troviamo i 3.237 euro annui a famiglia di Cagliari e i 3.

071 di Palermo, seguiti dai 2.965 di Genova e i 2.899 di Firenze. Almeno in questo ambito, i catanesi (2.839 euro) pagano più di un milanese (2.671 euro). Le camicie verdi possono aggiornare i propri calcoli. La sostanza, però, non cambia granché.

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