Cicciobaffo e Lilli Botox, la tv secondo Dago

«L’hai vista l'ultima puntata di Maria La Sanguinaria?». «Chi?». «Dài, la moglie di Cicciobaffo». Chi non segue Dagospia non saprà mai che stai parlando di Maria De Filippi e Maurizio Costanzo, chi non segue Dagospia è fuori dal mondo, ossia fuori da tutti quei mondi nei mondi che si chiamano mondo del calcio, mondo della politica, mondo della moda, mondo dell'arte, la cui parte sociale, mondana, puttana e chiacchierina, in francese si chiama, non per altro, demimonde, e quindi se leggete Marina Ripa di Moana state certi che non si tratta di un refuso, e chi vuole intendere fraintenda.
Già per i latini valeva il principio del nomen omen, il destino è nel nome, e fin da bambini i nomi si storpiavano per deridere e disvelare, figuriamoci per lo scatenato Roberto D’agostino, nel cui sito Dagospia (www.dagospia.com), vengono continuamente nominati e rinominati anche i personaggi del mondo del spettacolo, il demimonde per eccellenza, benché tutto oggi sia spettacolo, e per Dagospia c’è poca differenza. Di conseguenza il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che non riesce a controllare niente e sembra contare in Rai meno di un usciere, pur provandoci continuamente per compiacere il «Banana di Hard-core», diventa «Sado-masi», dovendo subire i diktat di Michele Santoro «Sant’euro» o le raccomandazioni di «Gianmenefrego» o «Gianmipento Fini», ormai definito «Fini-Rai». Come da bambini, talvolta basta osservare un difetto fisico e Bruno Vespa si trasforma in «Bruneo», Lilli Gruber è «Lilli Botox», basta guardarli in faccia, o talvolta ascoltarli o leggerli, sarà per questo che Lidia Ravera è meglio nota ai dagospini come «Cogito Interruptus». Elisabetta Canalis, dopo la notizia delle sniffatine, è immediatamente «Nasalis», Marrazzo «M’arrazzo», dove i calembour nei titoli si sprecano, da «M’arrazzo di trans» all’ultima «M’arrazzo torna sul luogo del diletto».
Il conduttore, Alessio Vinci, non particolarmente espressivo, è «Catalessio», Alfonso Signorini immancabilmente «Alfonsina La Pazza», Monica Setta, sempre scollatissima (come chiunque, ma con la pretesa di non esserlo) è «Monica Tetta», Gianni Boncompagni «Panciera Gialla», Pippo Baudo «Pippitel», «Bauditel» o «Il principe Sa-baud», Mike Bongiorno è morto, quindi ormai definitivamente «Dal quiz all’eternità». Se Celentano è il «Molle-agiato», Zucchero è «Dietor», Francesco De Gregori «Francesco De Profundis» e Claudio Baglioni «Assisi e Canzoni».
L’onomastica di Dagospia è un beffardo elenco del telefono di genialità, non solo nomignoli, spesso definizioni metonimiche, il tutto per la parte o la parte per il tutto, e letti in fila sono una Commedia Umana moderna riscritta da Gadda, e basterebbero gli appellativi di «Dagogadda» a raccontare l’Italia e la tv, e siccome non me li ricordavo tutti, ho chiesto a lui se aveva una lista, un memorandum. Me ne arriva subito una di centinaia di nomi editi e inediti, anzi di «Gnomi e Cognomi», perché anche in un file personale «Dagogadda» non poteva essere banale. A proposito di banale, Paolo Bonolis, si sa, è «Paolo Banalis», ma Antonella Clerici è dagostorpiata in «La forza dell’intestino», per Valeria Marini «La gonna è mobile», Marta Marzotto «La contessa scarsa», Vittorio Sgarbi si chiama «Vate a perdere» o «Truci della ribalta», Roberto Benigni «Johnny Stracchino», Alessandra Mussolini «In...duce in tentazione», Francesca Dellera «Intimo di Squinzia», Nanni Moretti «Nanni di piombo» e Gigi Marzullo «Il vuoto palese». Tra le pornostar d’annata non si possono non ricordare Ilona Staller, che è «Il traforo del Gran Casso», e Milly D'abbraccio, «Refugium leccatorum».
Insomma, Roberto D’Agostino (alias «Roberto Disgustino», perché non poteva certo risparmiare se stesso), pur nella sua falsa modestia («Sono solo una pettegola»), è il Balzac dell’effimero, il Daumier del web, e la sua genialità, oltre a aver realizzato, da solo, con dieci anni di lavoro, un sito da seicentomila lettori al giorno (dopo essere stato radiato da Gianni Agnelli per aver riportato su L’Espresso «che portava sfiga»), sta nella continua manipolazione caricaturale, artistica, espressiva non solo dei nomi ma anche dei titoli: un articolo che fa sbadigliare su Repubblica o sul Corriere della Sera diventa succulento su Dago, che ne estrae il succo e lo deforma e la satira coincide con il realismo puro.

E non mancano gli scrittori, intellettuali e narratori vari: così mentre Alessandro Baricco è «Il fiero delle vanità», Pietro Citati non può essere altro che «La caduta delle idee», Carmen Llera Moravia «La Carmen è debole e lo scrittore si deve difendere», Alberto Arbasino «Don Kitschotte», Aldo Busi «L’anocalisse del romanzo», Umberto Eco «L’isola del giorno prima», Guido Ceronetti «I pensieri del tiè», Francesco Alberoni «Il pelo nell’ovvio» e Alberto Bevilacqua, da poco rilegato in un tombale Meridiano, «Un parmigiano con la faccia da stracchino». A me è toccato «Parente-Serpente», ma scopro dalla lista segreta che sono anche «A fin di pene» (pene o pène, cambia poco), ancora inedito, credo, ma me li tengo stretti entrambi.

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