Troppo pulito per essere vero. Questa l'accusa acrobatica che Danilo Di Luca rispedisce al mittente dopo un anno di tormento. Il termine non è esagerato: che altro è per un atleta, se non un tormento, vincere il Giro d'Italia e poi cadere nella palta dei sospetti, dei sorrisetti, delle sentenze tanto al chilo? Il meccanismo, ormai, è sin troppo noto: andava troppo forte, chissà cosa ha preso, c'è un'inchiesta del Coni, sono davvero tutti drogati.
Con questo simpatico meccanismo, che sa molto di tritacarne, si tiene in piedi il paradosso della giustizia sportiva. Il piemme Torri la butta lì, ovviamente non per luna storta, ma anche solo per un qualche elemento poco chiaro: poi, si arrangi il sospettato. L'onere della prova, cioè dimostrare d'essere innocente, tocca all'atleta. Nella giustizia ordinaria sarebbe una mostruosità assoluta, per la legge dello sport siamo nell'abitudine. In un anno esatto, Di Luca ha verificato personalmente di che si tratti: come pedalare controvento, ma quando arriva l'uragano.
Adesso i periti assicurano che non ci sono gli elementi per distruggere la carriera alla maglia rosa: il sospetto che i suoi valori ormonali, in vetta allo Zoncolan, fossero quelli di un bimbo soltanto grazie a una flebo furbesca - cioè l'accusa di Torri - non sta in piedi. Assolto. Come non detto. Può tornare tranquillamente in gara. Già dal prossimo Giro, di qui a tre settimane. Con tanti auguri di vincerlo.
Raccontata così, sembrerebbe persino una storia a lieto fine. Ma purtroppo non è questo il caso. Ormai è prassi che certe assoluzioni siano totalmente inadeguate. Troppo lunghi, tremendamente e impietosamente lunghi, i dodici mesi dell'inchiesta. Impossibile, per l'assoluzione, rimediare. Tanto per cominciare, nessuno risarcirà Di Luca per le vergogne che gli sono toccate. Nessuno gli restituirà la bellezza di un Giro d'Italia vinto senza se e senza ma.
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