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Dal ciclismo alla sanità, il manager che non volle diventare numero uno

«Io erede di don Verzè? Non c’è niente di vero» aveva scherzato poco più di un anno fa alla festa per il novantesimo compleanno del sacerdote manager che affiancava da 35 anni. «Il San Raffaele ha appena avviato il programma per allungare la vita fino a 120 anni e dunque lui rimarrà il nostro faro per altri trenta». Non sono andate così le cose. In poco tempo quella che sembrava un’istituzione medico-scientifica all’avanguardia è crollata, sommergendo con le sue macerie anche uno spirito forte e incline all’ironia come Mario Cal, 72 anni compiuti il 30 giugno scorso. Nato nel 1939 a Motta di Livenza, nel trevigiano, era sposato, senza figli, e laureato in Economia e commercio. Gran sportivo, con la passione per il ciclismo, come manager della Malvor Bottecchia aveva gestito campioni delle due ruote come Giuseppe Saronni e Roberto Visentini.
Entrato al San Raffaele nel 1977, aveva assunto responsabilità sempre maggiori, diventando consigliere nel 1984 e poi dal 1990 vice presidente della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Nel gruppo Cal si occupava della parte finanziaria. Affabile e concreto, risolveva i problemi che don Verzè lasciava alla sua inventiva. Come quella volta, erano i primi tempi, quando i cantieri d’ampliamento dell’ospedale erano fermi (anzi sequestrati) per impedimenti burocratici del Comune di Segrate. I pilastri arrugginivano alle intemperie e i costi lievitavano. Questo di giorno, perché di notte piccole squadre di operai continuavano a lavorare alla luce delle torce. Così al mattino, davanti ai vigili che il comune spediva a controllare, si presentava uno strano spettacolo: i sigilli del cantiere intatti e una gettata di cemento in più. «Ma qui c’è la malta ancora fresca» protestavano i ghisa. «La zona è molto umida» era la risposta risolutiva.
Nel 1994 Cal aveva vissuto una disavventura giudiziaria, finendo coinvolto in un’inchiesta di Mani Pulite, insieme al direttore amministrativo del San Raffaele, per una vicenda di bustarelle agli ispettori dell’Ufficio imposte. Dopo una notte in prigione era stato scarcerato. Dieci anni dopo lo stesso pm chiese l’assoluzione per sopraggiunta prescrizione.
Il suo rapporto con don Verzè, anche lui veneto ma della provincia di Verona, era sempre improntato alla massima fiducia e al senso dell’umorismo, intriso di scherzi reciproci. Come quello di una partita a briscola giocata su un volo intercontinentale e vinta undici a zero da Don Verzè. I due giocavano uno di fronte all’altro, accanto al finestrino dell’aereo sul quale Don Verzè riusciva a leggere le carte dell’avversario, vincendo una mano dietro l’altra. Scoperto il trucco, Cal era scoppiato a ridere.
Negli ultimi mesi però era prevalsa la tensione e la corsa contro il tempo per salvare il San Raffaele, oberato da debiti per un miliardo e dalla pressione dei creditori. Lui era tornato nell’occhio del ciclone. Fino all’ultimo Don Verzè ha cercato di negoziare la presenza di suoi uomini di fiducia nel cda della Fondazione, ma per Cal non c’era più posto. Una decina di giorni fa era stato sentito dai magistrati come persona informata sui fatti, ma non era indagato. Non era particolarmente preoccupato per quel colloquio. Piuttosto, ha spiegato il suo avvocato Rosario Minniti, «era disperato perché vedeva crollare il sogno di una vita: curare gli ammalati nel miglior modo possibile, curare i poveri come una volta si curavano i ricchi».


Ieri mattina era arrivato nel suo ufficio intorno alle 10 per prendere le carte e i suoi effetti personali rimasti nell’ufficio che nei prossimi giorni sarà occupato da Giuseppe Profiti, il manager che il nuovo Cda della Fondazione ha nominato al suo posto. Era apparso inizialmente sereno, aveva salutato la segretaria Stefania prima di accorgersi che ciò che era venuto a prendere era già stato accatastato davanti alla porta. RI

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