Un cigolante passaggio a «Sud-Est»

C’è una linea di demarcazione linguistica che divide in due la regione

Prendo il treno della «Sud-Est» partendo dalla stazione di Martina Franca. Nella stazione il macchinista è più sonnecchioso del cane randagio (quasi uno «straviere», incrocio di cani pugliesi che si fa tra un «corso» e un animale più leggero, tipo levriere o veltro) che si spulcia, è più automatico delle leve che aziona, i bigliettai fumano una Marlboro e leggono la Gazzetta dello Sport, il Capotreno non c’è.
Entro nella stazione e sono già in un luogo della letteratura, perché così comincia una poesia di Dario Bellezza: «Scaricato alla stazione di Martina Franca...». Il viaggio che mi attende è sinuoso, lento, pomeridiano, sbalzellante, cigolante, eppure non si può far l’amore «con l’ausilio del motore» (Battiato) perché i treni della ferrovia «Sud-Est» non fanno servizio notturno, non hanno cuccette, non hanno bagni, e hanno tende sdrucite, smagliate che fanno passare pulviscolo, pomeriggio e occhiate, e poi c’è sempre un controllore che passeggia per i vagoni, cadenzando il viaggio, come un Kant cronometrico e minore. Il turista comodo converrebbe col suo compagno di viaggio che la traversata è scomoda, dura, refrattaria e c’è sempre afa che ristagna nel vagone.
Il fricchettone nostalgico, il turista che campeggia, il radical chic che si divide tra conto in banca e lotta veteroproletaria e vota per D’Alema, tutti costoro invece, devoti alla fantasticheria consentita dall’errante memoria, dallo spirito d’avventura, e dal meticciamento culturale, viaggiano diversamente. Tutti costoro hanno la sensazione di una meraviglia, di un universo che si schiude tra la micrologia dell’intarsio delle pietre dei muretti e la vista panoramica sulle murge, quando si slargano in colline mammellari.
Intanto mi viene in mente quel bellissimo poema che è Il tranviere metafisico di Luciano Erba, e penso alle macchine di Milano, all’illuminismo retrò dei tram dei primi del secolo scorso che ancora resistono alla febbre elettrica, che sviano talvolta su pianori erbosi: commistione di Mitteleuropa e selvaticume.
Ma sulla «Sud-Est» invece è selvatico tutto, non solo le mosche che cantilenando sbattono ai vetri disocchiusi. Arrivo intanto in un luogo ancestrale: la stazione di Pascarosa, vicino alla turistica Ostuni, prossima a sua volta ad una delle spiagge vip pugliesi che è Rosa Marina, frequentata massimamente dalla Bari bene, da qualche contrabbandiere che ha resistito alla retata della «Primavera ’99» del ministro Bianco, e da tre mie ex amanti.
Nella stazione c’è scritto «Pscroa» e non «Pascarosa», perché sono cadute le lettere. Mi chiedo chi le abbia trovate e dove siano state conservate; sono ora feticcio di un alfabeto misterico o reliquia tra le altre, destinata al rigattiere, all’avventore che chiederà «ma che sono?». Forse sono il souvenir della perdita che si nutre di un tempo rallentato come quello de La luna dei Borboni di Vittorio Bodini (che è uno dei più grandi poeti del nostro Novecento), forse solo il risultato di una mancata collaborazione tra i chiodi dove erano infisse, l’operaio che doveva riattaccarle, il temporale che le fece crollare. A Pascarosa, il tempo è davvero circolare come nei romanzi di García Márquez secondo l’ossessiva opinione strutturalistica di Cesare Segre.
Se andate nella piazzetta del Comune di Pascarosa sarete accolti da solitudine totemica. Non ci ho mai trovato nessuno. La piazza è di straordinaria desolazione e di straordinaria resistenza alla desolazione, perché ci sono targhe commemorative ovunque e d’ogni evento. C’è una madonna celeste scolpita in pietra calcarea vicino ad una venere nuda e terrestre; dei putti bacchici vicino ad un sarcofago con il corpo deposto di Cristo; e poi una vasca con dei pesci rossi che sopravvivono. Il paganesimo della Puglia è questa commistione; il cristianesimo della Puglia anche. Qui ci sono ancora oltre settanta menhir infissi nelle periferie di paesi salentini, vicino a pali del telefono e una quindicina di dolmen, prossimi alle tavole d’altare di chiese di campagna; la processione del venerdì Santo di Taranto con i perdune (uomini incappucciati che camminano per un intero giorno a piedi, facendo due passi avanti e uno indietro), si fa di notte come i misteri eleusini e di Delfi che secondo Lattanzio si svolgevano anche nel Tarantino oltre che a Sibari.
Il treno ha ripreso a serpeggiare nell’inizio della discesa dall’altopiano murgiano verso il Salento pianeggiante. Ed infatti il colore della terra muta: più gialla e silicea, dove prima era più rossa e ferrosa. È cambiato anche il dialetto; i ragazzi che salgono adesso sono arrapati e sfottono con suoni aperti e strascicati le compagne sudate che portano le zeppe ai piedi e leggono Chi. Se un signore di Taormina, che immagino lussurioso, curioso, ma attempato, salisse misteriosamente sul treno adesso, riuscirebbe a comprendere quel vocio meglio di un barese. C’è un’isoglossa, una specie di linea di demarcazione linguistica che taglia in due la Puglia, per cui il dialetto di Cisternino (dove nelle sere d’estate si bivacca tra carni arrosto e la manifestazione «Pietre che cantano») è comprensibile da un barese o da un foggiano, ma non da un abitante di Taviano (dove, oltre alle serre di fiori, ci sono, secondo un’imprecisata leggenda, le donne più belle di Puglia); da una parte la macroglossa napoletana, dall’altra quella siculo-calabrese-salentina.
In questo senso la Puglia, che è la più levantina delle regioni italiane, se Otranto è più a Est di Praga, è anche la più varia nella differenziazione della gens. A nord i Dauni scolpivano stele funerarie con motivi Ari (croci di tipo nordico, svastiche), a Sud i Messapi si dedicavano a culti matrilineari. Anche lo «spirito» del barese e quello del leccese meriterebbero un’accurata distinzione, ma la faremo un’altra volta includendovi la categoria ineffabile del «come essi vivono la passione».
Il treno della «Sud-Est» che cigola come una vaporiera nella leggenda del Far West che è da tutt’altra parte, sta arrivando ormai a Lecce. Dovrebbe rallentare, ma forse non ha mai accelerato, per cui non cambia nulla. Forse sono sempre stato qui.

A Lecce, che è la più colta e viva tra le città pugliesi, devo andare al Fondo Verri dove a volte si raduna la migliore letteratura italiana, almeno quando ci passo io, e fare un salto (si tratta proprio di un salto nel buio) all’Ateneo. Ve lo racconto la prossima volta.
(1. Continua)

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