Pechino - Alla vigilia del 50esimo anniversario dalla fallita rivolta in Tibet, il presidente cinese, Hu Jintao, ha esortato i leader della provincia a costruire una "grande muraglia" contro il separatismo. "Dobbiamo costruire una Grande muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e per la salvaguardia dell’unità della madrepatria e trasformare la stabilità di base del Tibet in una sicurezza a lungo termine", ha affermato in un messaggio televisivo Hu, che nel 1989 quando guidava il Partito comunista locale guidò una sanguinosa repressione in Tibet. La provincia himalayana - ha sostenuto - dovrebbe progredire verso "un rapido sviluppo economico" e garantire "sicurezza e stabilità sociale". Intanto, però, tornano le proteste dei tibetani nella provincia di Qinghai, nella Cina nord-occidentale.
Nuovi scontri in Cina Piccoli ordigni rudimentali sono stati lanciati contro un’auto della polizia e un mezzo dei vigili del fuoco, causando lievi danni ma senza causare vittime. Gli scontri sono avvenuti domenica ma i media cinesi ne hanno dato notizia con 24 ore di ritardo. A innescare la reazione dei tibetani della prefettura di Golog, dove questa minoranza è molto numerosa, era stato il fermo di un residente a un posto di blocco della polizia cinese. In Tibet e nelle zone con minoranze tibetane come il Golog sono state aumentate le misure disicurezza in vista del 10 marzo, 50mo anniversario della rivolta contro Pechino del 1959 che portò alla fuga in India del Dalai Lama.
Intensificati i controlli Truppe aggiuntive sono state schierate alle frontiere, lungo le arterie principali. A Lhasa le forze di sicurezza pattugliano le strade e i pochi tibetani che circolano vengono spesso fermati e identificati. A Dharamsala, la città indiana dove ha sede il governo tibetano in esilio, per domani è in programma una manifestazione di 10mila attivisti pro-Tibet nonostante gli appelli alla moderazione del Dalai Lama che ha invitato a pregare e a tenere cerimonie pacate per commemorare l’anniversario. Ad accendere gli animi è un rapporto da cui emerge che sono oltre 1.200 i tibetani di cui si sono perse le tracce dopo l’ultima, sanguinosa repressione cinese nella regione, nel marzo 2008. La denuncia arriva da International Campaign for Tibet, gruppo legato all’opposizione tibetana in esilio. Portati via in piena notte, incriminati sulla base di vaghe accuse di separatismo, migliaia di tibetani l’anno scorso finirono nelle carceri cinesi e alcuni non sono più tornati. Il rapporto, basato su materiale vietato in Cina e su resoconti di testimoni rimasti anonimi per ovvie ragioni di sicurezza, parla di "brutali torture" subite dagli arrestati, "a cui veniva infilato il bamboò nelle unghie oppure venivano legate e percosse le dita".
Fermati e rilasciati due giornalisti italiani Stanno bene e sono in costante contatto con l’ambasciata italiana di Pechino, i due giornalisti italiani fermati dalla polizia cinese e interrogati per circa 3 ore prima di essere rilasciati a Xining, capoluogo della provincia cinese di Qinghai, limitrofa al Tibet. Il corrispondente dell’Ansa a Pechino, Beniamino Natale, e quello di SkyTg24 Gabriele Barbati erano andati in un monastero per alcune interviste quando, all’uscita, sono stati fermati dalle forze dell’ordine per essere interrogati. Le fonti del ministero degli Esteri fanno sapere che i reporter hanno già raggiunto i loro alberghi e che "controlli di questo tipo stanno aumentando" alla vigilia del 50esimo anniversario della fallita rivolta dei tibetani contro Pechino. Truppe aggiuntive sono state schierate alle frontiere, lungo le arterie principali, a Lhasa e nelle altre città più importanti del Tibet. A Dharamsala, la città indiana dove ha sede il governo tibetano in esilio, per domani è in programma una manifestazione di 10mila attivisti pro Tibet nonostante gli appelli alla moderazione del Dalai Lama che ha invitato a pregare e placare i toni.
109 monaci in ri-educazione Centonove monaci tibetani sono stati prelevati dalla polizia cinese per essere sottoposti a "ri-educazione" politica. Il "sequestro" dei 109 monaci del monastero di Lutsang, nella provincia di Qinhang, è solo una delle tante misure straordinarie adottate da Pechino per scongiurare eventuali disordini anti-cinesi. Tanto più che quest’anno ricorre anche il primo anniversario delle proteste, guidate dai monaci, esplose l’anno scorso a Lhasa, capitale del Tibet, e in altre città tibetane e soffocate nel sangue dalle autorità cinesi.
I provvedimenti del governo cinese Fra i provvedimenti eccezionali, il divieto di ingresso ai visitatori stranieri, già scattato, in circa un quarto del territorio della Cina, un’area grande come l’Europa occidentale che comprende la "Regione autonoma del Tibet" e le quattro province limitrofe a maggioranza tibetana. In quest’area sono stati mobilitati decine di migliaia di soldati e di agenti della polizia paramilitare. Due contee della provincia di Sichuan, dove l’anno scorso scoppiarono le manifestazioni più violente, sono state tagliate fuori dal mondo esterno. Memori dell’uso che fecero i tibetani degli Sms con i quali riuscirono a comunicare e a far dilagare le proteste anti-Pechino nella vasta regione himalayana, le autorità cinesi hanno deciso di bloccare dal 10 marzo al 1 aprile le reti di internet e della telefonia mobile. "Ci scusiamo per ogni inconveniente creato", leggeranno da domani gli utenti colpiti dal provvedimento sui loro schermi e telefoni. Il governo cinese è così ansioso che il capo del Partito Comunista del Tibet, Zhang Qingli, è rimasto a Lhasa, rinunciando addirittura a partecipare alla sessione annuale del Congresso Nazionale del Popolo.
Una fotografia lo ritrae sul sito ufficiale China Tibet News mentre passa in rassegna la polizia anti-sommossa, intimando agli agenti di essere vigilanti e di soffocare sul nascere tutti i complotti orditi dalla "cricca" del Dalai Lama per smembrare la Cina.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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