La Cina alla guerra dei minerali strategici

Sono indispensabili per industrie chiave come quelle dell'automobile, della difesa e della telefonia. Per non dire della Green Economy. E i giacimenti sono cinesi al 95%

Roberto Fabbri
Gadolinio, itterbio, praseodimio, disprosio, lutezio. Chi li ha mai sentiti nominare? Sono solo alcuni dei diciassette minerali strategici conosciuti sotto il nome collettivo di "terre rare". Praticamente insostituibili nelle tecnologie oggi impiegate nella fabbricazione di componenti elettronici, batterie o motori elettrici, sistemi d'illuminazione e altro. Il problema è che questi minerali non sono solo rari, ma che i giacimenti si concentrano attualmente per la quasi totalità (il 95% per la precisione) nel territorio di un solo Paese: la Cina.
Nel 1992 l'allora presidente Deng Xiaoping, propugnatore dell'entrata della Cina nella competizione capitalistica mondiale, aveva visto chiaro e lungo: «Il Medio Oriente ha il petrolio, ma noi abbiamo le terre rare». Arma economica (e di ricatto) di straordinaria efficacia, come si è capito negli anni successivi. In attesa di svilupparne l'estrazione altrove, le industrie del resto del mondo devono oggi fare i conti con le condizioni poste da Pechino. Che si traducono in vari ordini di problemi: anzitutto una crescita continua dei prezzi, diretta conseguenza del monopolio, e poi il dover sottostare a un sistema di controllo delle esportazioni dalla Cina, che nel 2010 ha deciso improvvisamente di ridurre del 40% le sue vendite all'estero rispetto al 2009. Altro che cartello dei produttori di petrolio!
Le terre rare sono preziose nell'industria automobilistica (batterie, illuminazione, cristalli liquidi, vetri colorati), in quella della difesa e nella telefonia, ma addirittura indispensabili per la cosiddetta green economy, nella quale l'Occidente sembra intenzionato a investire con crescite esponenziali: non solo le auto elettriche (ancora l'industria dell'auto!) ma i macchinari per la produzione di energia eolica e solare non possono farne a meno. Rischiare di farsi strangolare dalla Cina in settori così strategici è inaccettabile, da qui la reazione delle imprese e dei governi dei grandi Paesi industrializzati come gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania: primo obiettivo, trovare delle alternative. Il che significa due cose: sviluppare tecnologie innovative che riducano la dipendenza dalle terre rare e stimolarne l'estrazione in altri Paesi.
Sul primo punto, nulla è impossibile, ma i tempi per superare la dipendenza dalle terre rare sono certamente lunghi. Sul secondo punto esiste una realtà paradossale: le terre rare non sono affatto rare, è vero semmai che i giacimenti facilmente sfruttabili sono pochi, mentre nella massima parte dei casi i preziosi minerali si trovano in basse concentrazioni e spesso mescolati a sostanze radioattive. Pur di accedere a materie prime di tale importanza in condizioni più vantaggiose le grandi aziende del settore stringono accordi con Paesi produttori minori come Canada, Brasile, India, Australia e Kazakistan: obiettivo, rompere il monopolio cinese. Anche questo percorso però richiederà tempo: tra l'apertura di una miniera e l'effettiva messa a disposizione del minerale passano due-tre anni. E dieci, forse anche quindici prima di arrivare al pieno impiego su base industriale. Un'eternità.
Nel frattempo, la Cina potrà continuare a fare il bello e il cattivo tempo.

Non limitandosi a dominare nella produzione delle terre rare, ma sviluppando ulteriormente il proprio già ottimo know-how nella loro trasformazione industriale e rendendosi così ancor più indispensabili: già oggi fa un'eccezione alle quote sull'export per i prodotti trasformati in Cina, che possono essere venduti all'estero senza restrizioni. E il giorno in cui nuovi produttori le faranno concorrenza, c'è già chi ipotizza che pur di azzerarla Pechino rinuncerà al sistema delle quote, facendo così crollare i prezzi.

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