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La Cina per gli Usa resta ancora lontana

Andrea Nativi

Qualche timida apertura, ma dopo il viaggio del segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld in Cina le posizioni tra le due potenze restano distanti. E difficilmente la visita del presidente Bush, prevista per novembre, otterrà grossi risultati sul versante della difesa e della sicurezza.
Nella sua tre giorni cinese Rumsfeld ha avuto incontri ad altissimo livello, dal presidente Hu Jintao al ministro della Difesa, il generale Cao Guangchuan, ed è stato anche ammesso nel segretissimo comando delle forze strategiche missilistiche (Seconda forza di artiglieria, nella nomenclatura locale).
È proprio nel corso di questa visita che Rumsfeld ha ottenuto il risultato più importante: il generale Jung Zhiyuan, alla testa di una forza di 90.000 uomini che sta schierando missili a testata nucleare e convenzionale sempre più sofisticati e con gittata crescente, ha confermato che la Cina aderisce al principio della rinuncia ad usare per prima le sue armi nucleari. Viene così smentito il generale Zhu Chengu, che lo scorso giugno non aveva escluso il ricorso ai missili nucleari se gli Usa fossero scesi a fianco di Taiwan in una eventuale crisi militare tra le due Cine. Una rassicurazione che ha fatto tirare un respiro di sollievo a Washington. Ma al di là di generici impegni a scambi di visite e ad intensificare i rapporti tra le rispettive forze armate non si è andati. Le relazioni tra i due Paesi nel campo della difesa sono sempre state fredde, ed erano anzi precipitate dopo la vicenda della collisione tra un aereo spia americano EP-3 e un caccia cinese nel 2001.
Gli ospiti cinesi hanno colto l’occasione per invitare Washington a non vendere a Taiwan sistemi d’arma sofisticati per non alterare gli equilibri, un leit-motiv della politica cinese. Taiwan sta decidendo l’acquisizione di sistemi missilistici antiaerei e di velivoli antisommergibile americani per 10 miliardi di dollari, e vuole anche un congruo numero di sottomarini ad alte prestazioni. Washington ritiene che questi sistemi siano indispensabili per bilanciare la superiorità cinese.
Non c’è accordo neanche sull’entità del riarmo di Pechino: secondo il Pentagono la Cina spende ormai 90 miliardi di dollari l’anno per la difesa. Cao Guangchuan ha invece affermato che il bilancio è di 30,2 miliardi: «Non possiamo spendere di più, abbiamo 30 milioni di cittadini indigenti che hanno bisogno dell’aiuto statale». In realtà 30 miliardi sono pur sempre il doppio rispetto alle cifre di cinque anni fa, e nel bilancio ufficiale non rientrano le spese per i programmi spaziali, le armi nucleari, le acquisizioni di armamenti all’estero (specie dalla Russia) e alcune attività di ricerca e sviluppo. La Rand Corporation in un recente studio colloca il bilancio reale tra i 69 e i 78 miliardi di dollari. Comunque sia, ben poco cosa rispetto alla spesa militare statunitense, che supera i 400 miliardi di dollari.
È naturale che la Cina stia cercando di ammodernare le proprie Forze Armate, e intanto acquisisce capacità di proiezione di potenza, professionalizza lo strumento militare, riducendone la consistenza (altri 200.000 soldati in meno entro il 2005, portando il totale ad «appena» 2,3 milioni di uomini).

Ma non ha però la possibilità di rimpiazzare in fretta e in quantità adeguata le vecchie piattaforme con quelle di nuova generazione, come del resto accade accadde all’Unione Sovietica alla fine della Guerra Fredda.

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