La volgarità è unarma pericolosa, non la si dovrebbe lasciare in mano a dei ragazzini i quali, usandola (in verità soltanto credendo di usarla) fanno del male a se stessi e agli altri. La volgarità è un coltello affilato, quasi un bisturi: richiede la maestria di tagli netti, precisi e profondi che lasciano cicatrici. Figlia del «volgo», cioè del popolo, può diventare nobile come in Villon, o in Dostoevskij o, addirittura, in Bukowski. Affondando la lama nella pancia della società, non le fa il solletico, non la titilla: la ferisce e lintimorisce, mettendone a nudo il suo essere indifesa. Il volgare Checco Zalone, proprio questo fa di mestiere: laureato in Giurisprudenza, usa il «privato» della risata trasformandola nellarringa della pubblica accusatrice.
Ecco perché la bestemmia non è volgare nel senso forte e primario del termine: la bestemmia è, al contrario, uno scatto di rabbia verso il nulla, liroso singulto di chi, avvertendo la propria impotenza, vuol farsi notare creando scandalo, giocando di sponda con lo spettatore. La bestemmia è tipica dei borghesi piccoli piccoli, talmente piccoli da sparire nellanonimato e da tentare - grottescamente - di affrancarsene, appunto, battendo la scorciatoria di due o tre parolette fuori posto.
Prendiamo gli inquilini della casa più spiata dItalia, quella del Grande Fratello, appena sfrattati per aver varcato la soglia dellindicibile. Per bocca loro non parla il «volgo», bensì linfantile capriccio del poppante, magari ben palestrato e guascone, ma sotto sotto isterico e tremebondo, desideroso soltanto di apparire in una forma di malintesa virilità. Si appuntano al petto le medaglie dei «beep» censori e lo gonfiano, quel petto, davanti agli occhi sgranati di signorine fisicamente ben fatte (o rifatte), ma sostanzialmente insipide, ripetitive, seriali.
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