Cinema

Quel cinema militante che ora non piace neppure ai militanti

Nel libretto di Goffredo Fofi la cronistoria di critiche inspiegabili e ideologiche a film poi diventati classici

Quel cinema militante che ora non piace neppure ai militanti

A Goffredo Fofi saggista, giornalista e critico cinematografico, nato a Gubbio nel 1937 (quindi ha raggiunto gli 86 anni!) va dato atto di aver mantenuto, nel corso della sua lunga e operosissima attività intellettuale e di militante delle cause perse, una coriacea coerenza. Chi ne vuole una tangibile dimostrazione può sfogliare l'agile libretto appena editato da Fofi, Breve storia del cinema militante (Elèuthera, pagine 144, 15 euro). Da sempre l'autore è stato un fervente sostenitore del cinema militante. Fofi viene da lontano. Dal fatidico Sessantotto. Anzi, la contestazione l'ha addirittura anticipata, varando nel maggio 1967 una rivista ultra-militante, Ombre rosse. Realizzata a Torino, austera, pochi numeri, pochi collaboratori. Molta grinta. Troppa grinta.

Contro il cinema italiano si rivela un vero e proprio plotone di esecuzione. Non guarda in faccia nessuno. La prima copertina lascia pochi margini di errore: vi appare il profilo di Burt Lancaster, protagonista del film I professionisti (1966) di Richard Brooks. Imbraccia un fucile. Che quelle pagine saranno uno strumento di battaglia, lo testimonia anche il logo della testata: sotto al nome quattro revolver a tamburo e canna lunga. Nell'editoriale di apertura Fofi annuncia lo stile da tiro al bersaglio. Infatti, sopra alla tabella che stila la classifica dei film visionati, campeggia un titolo: I 400 colpi. Rimanda ad un grandissimo film d'autore di François Truffaut. Ma i colpi sono veri. Si spara. Ad ogni singolo film vengono assegnate delle palline. Fori di proiettile su un bersaglio. Più ce ne sono più l'opera è infima. Vengono sforacchiati così i «mostri sacri» della cinematografia nazionale. Sergio Leone subisce un pestaggio coi fiocchi. Il buono, il brutto, il cattivo, (1967) è considerata la peggiore fra le opere di Leone, ultimo atto del declino di un autore promettente. Un film noioso che addirittura scatena il mal di testa allo spettatore. Al cinema convenzionale nazionale e internazionale viene preferito il cinema militante. Una ricerca d'autore assommata all'ideologia, ovviamente rivoluzionaria e giovanil-sinistrorsa. Sin dalla solfurea giovinezza di critico, Fofi non ama le mezze misure. Preferisce l'invettiva. L'assalto all'arma bianca. Gli piacciono le scomuniche. In un suo saggio, Cinema italiano. Servi e padroni (Feltrinelli, 1973), attacca con estrema brutalità Elio Petri, ai suoi occhi espressione di destra. Destra assolutamente immaginaria.

I decenni trascorrono. E Fofi non solo non ha nessuna voglia di abbandonare questo atteggiamento da fustigatore (ne ha tutto il diritto, ovvio). Il suo profilo richiama quello del Savonarola della critica cinematografica, sempre pronto a far sentire rumorosamente la propria voce. Gli acciacchi del tempo lo obbligano a dotarsi di un bastone. Spesso roteato minacciosamente quando si scalda nel corso di una disputa intellettuale. Un personaggio del genere il giovane Filippo Tommaso Marinetti lo avrebbe immediatamente reclutato nella banda futurista. Qualità di parola, di scrittura e desiderio di rovesciare tavoli. In Breve storia del cinema militante Fofi raccoglie mezzo secolo di riflessioni. Mai ovvie, banali, sciatte. Anzi, il contrario. Leggere Fofi è un piacere. Nelle sue pagine, non ingiallite dal tempo, si ritrova la spiegazione della decadenza della cultura cinematografica in Italia. Il cinema che ha amato (e tuttora ama) Fofi è certamente degno di rilievo. Ma è del tutto insignificante, marginale. Può esserlo per una storia del cinema ad uso e consumo di un «cane sciolto» (con tutto il rispetto), intraprendente e originale quanto si vuole, innamorato pazzo di un modo di utilizzare le immagini come arma di combattimento, politica e sociale. Nelle pagine emerge la considerazione di Fofi per il desiderio avanguardista di cogliere il reale del sovietico Dziga Vertov; per il Vietnam del francese Chris Marker; per l'indignazione civile dell'argentino Fernando Solanas; per l'underground americano impegnato a immortalare Woodstock e la ribellione californiana nei campus; per la militanza tra loro difforme di Ettore Scola, Marco Bellocchio e Jean-Luc Godard. Pagine nelle quali si riassume, nitidamente, l'itinerario del principale protagonista di una generazione che non ha saputo fare i conti, innanzitutto, con la storia del cinema. Fofi offre al lettore un approccio davvero semplice: l'onnipotente industria delle immagini, pur con il suo planetario successo, non è riuscita a frenare l'inarrestabile decadenza della «settima arte». Oggi il cinema agonizza, vampirBizzato da altre forme di espressione e comunicazione. Come opporsi all'estinzione, ormai certa? Attraverso la militanza, percorso di possibile salvezza. Anzi, unica alternativa possibile. Da tempo Fofi guarda con simpatia la galassia sgonfiata e spompata del mondo cattolico. Il quotidiano dei vescovi volentieri gli apre le porte. Osservandolo attentamente, Fofi nella vecchiaia ha assunto il profilo del Patriarca. Barba bianca e folta. Invita i superstiti credenti del cinema militante a riunirsi nelle catacombe della cinefilia, vecchie e nuove, luogo dove praticare il culto delle immagini. Solo lì il cinema, ricordando il suo passato e meditando sul presente, può tornare a respirare e rinvigorirsi con linfa nuova. Il Patriarca, da buon e saggio predicatore della buona novella, ha messo nero su bianco un vero e proprio breviario del cinema militante. Una Bibbia in forma ridotta della vera cinematografia. Tutto il resto non esiste. Giunti alla conclusione, vogliamo augurare lunga e buona vita al Patriarca Goffredo. Non ne ha azzeccata una.

Però, imperterrito, non si è mai perso d'animo.

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